“A due anni di distanza l’euforia dalla Primavera araba sembra ormai un ricordo del passato”. Si apre così il 23esimo rapporto annuale di HRW, che in 700 pagine racconta la situazione dei diritti umani in 90 paesi del mondo. Anche quest’anno il focus parla arabo.
di Maria Letizia Perugini
“The day after”
‘Indignazione’, ‘frustrazione’, ‘delusione’, ‘paura’: sono queste le parole usate da Kenneth Roth, direttore esecutivo di Human Rights Watch, per descrive la stagione successiva alla Primavera araba, nel lungo editoriale introduttivo al rapporto annuale sullo stato dei diritti umani nel mondo.
L’euforia e l’esaltazione dei giorni della contestazione hanno ceduto il passo all’enorme compito che ora attende la riva sud del Mediterraneo: costruire democrazie rispettose dei diritti umani sulle ceneri dei vecchi regimi.
Il 2012 è stato un anno di passaggio per la maggior parte dei paesi della regione, che si sono ritrovati a fare i conti con il fragile equilibrio post rivoluzionario.
Il cammino verso la libertà non è scevro da sacrifici e pericoli, ma ai nostalgici della “tranquillità della dittatura” Roth ricorda l’impensabile “alternativa” di condannare interi popoli ad un “oscuro avvenire di oppressione”.
Accanto agli Stati in transizione, il rapporto analizza la situazione dei diritti umani nei paesi che non hanno subito cambiamenti di regime, o in cui le manifestazioni non hanno avuto ‘successo’. Qui i passi avanti sono pochi e le condizioni di vita delle persone, spesso, drammatiche.
Le basi della democrazia: Costituzione e diritti delle donne
Per quanto riguarda le democrazie arabe in erba – sostiene Roth – il primo pericolo con il quale si stanno confrontando è quello della “dittatura della maggioranza”.
In una logica di alternanza democratica è necessario tenere ben presente che i vincitori e governanti di oggi potrebbero essere gli sconfitti elettorali di domani: le minoranze, dunque, non sono un soggetto da punire, ma vanno ascoltate e rispettate.
Anche e soprattutto nel momento in cui si costruiscono le basi di futuri stati democratici, con la stesura di testi costituzionali che dovrebbero prendere come riferimento i trattati internazionali sui diritti umani come punto di partenza.
Ma così non è. Ad esempio, sebbene la nuova Carta egiziana si riferisca alla shari’a solo in termini di “principi” e non di “precetti” (art. 2), finisce però con l’imporre un vincolo stringente a tutti i diritti: quello di non danneggiare “l’etica, la morale e l’ordine pubblico”.
A coloro che ancora credono che i diritti umani siano un’imposizione dell’Occidente, incompatibili con i principi della ‘religione del Profeta’, Roth risponde che le nuove conquiste dei cittadini non potranno in alcun modo danneggiare le persone che, volontariamente, vorranno comunque seguire uno stile di vita conservatore e fedele all’interpretazione più stretta dei precetti islamici.
Diverso invece un sistema legislativo che impone un unico modello di vita, condannando inevitabilmente le donne a uno stato di subalternità.
L’esempio più eclatante continua adessere l’Arabia Saudita, dove per le donne si registrano solo modesti miglioramenti – come l’opportunità di partecipare ai giochi olimpici o di accedere alla professione di avvocato -, in un orizzonte che resta ancora piuttosto cupo.
Segue l’Iran, paese in cui le donne devono ancora avere l’autorizzazione per ottenere un passaporto o per viaggiare senza il proprio tutore. Elemento quest’ultimo eliminato dalla legislazione giordana solo recentemente, con una legge dell’agosto 2012 che permette loro di scoprire il mondo anche in assenza del permesso del proprio marito.
Nello Yemen invece la situazione è drammatica: il rapporto parla di una media giornaliera di 8 donne che muoiono per complicazioni dovute al parto.
Qui i matrimoni delle bambine sono ancora diffusissimi ed espongono le giovani spose a ogni genere di sopruso e violenza, escludendole dall’accesso all’educazione.
Pur restando completamente estromesse dalla partecipazione alla vita pubblica, HRW sottolinea come abbiano avuto un ruolo più che determinante nelle giornate di protesta yemenite.
La libertà di espressione
Sempre nella logica del cosiddetto ‘gioco democratico’, un diritto che deve essere tenuto ben presente dai paesi in transizione è quello della libertà di espressione.
Secondo Roth, il pericolo è che possa essere limitata con il pretesto del mantenimento dell’ordine che si va costituendo, finendo così per considerare ogni manifestazione di dissenso come un ‘attentato alla rivoluzione’.
Per l’Egitto vengono ricordati i numerosi casi di persecuzione nei confronti dei giornalisti: subito dopo l’elezione del presidente Morsi, un canale televisivo è stato chiuso, tre edizioni di giornali censurate e nove giornalisti accusati di diffamazione.
Da parte sua la capostipite delle rivolte, la Tunisia, non ha ancora implementato a pieno i due decreti legge (115/2011 e 116/2012) che dovrebbero tutelare la libertà di stampa, con la conseguenza che è diventato difficile contare gli episodi di ‘offese all’Islam’: a marzo è stata la volta di due blogger, condannati a sette anni e mezzo di reclusione, confermati in appello.
A maggio Nabil Karoui, proprietario della televisione Nessma Tv, è stato condannato a un’ammenda di 2300 dinari per aver trasmesso il film ‘Persepolis’, denunciato come blasfemo da molti esponenti islamisti.
Ma non vanno dimenticati neanche quei paesi in cui la rivoluzione non è mai iniziata o finita.
Roth ricorda il caso del Bahrein, dove la libertà di espressione viene soffocata in virtù del mantenimento dell’ordine.
Scorrendo il rapporto, la sezione dedicata al paese ricorda i numerosi attivisti per i diritti umani finiti in carcere per le loro azioni di protesta, partendo dai tweet inviati da Nabeel Rajab, responsabile del Centro per i diritti umani, condannato a 3 mesi di carcere per aver esortato il primo ministro a lasciare il suo posto.
Inoltre, il rapporto sottolinea la difficile situazione dei giornalisti iracheni, per i quali le prospettive sono assolutamente cupe: “Al momento della pubblicazione del rapporto il parlamento di Baghdad sta valutando alcuni progetti di legge sui media che – se approvati – si tradurranno in una limitazione consistente alla libertà di espressione”.
Il rapporto ricorda poi il triste primato iracheno nel ranking del Committee to protect jurnalist (CPJ) per l’impunità dei crimini commessi contro gli operatori dell’informazione.
Il caso libico
Un altro rischio che corrono i paesi usciti da una rivoluzione è quello di non riuscire a ricostruirsi come Stati. Secondo HRW, in Libia non esiste uno stato di diritto, con il potere centrale che stenta a riconquistare il monopolio dell’uso della forza e le milizie che dominano incontrollate vaste porzioni del paese.
Particolarmente grave la condizione dei detenuti: incarcerati per essere stati partigiani del deposto Gheddafi, oggi non hanno diritto a processi equi.
Emblematica la vicenda di Saif Al Islam, figlio del dittatore ucciso a Bengasi, che il nuovo governo non vuole consegnare alla Corte penale internazionale, anche perché a sua volta non riesce a strappare l’imputato dalle mani di una milizia indipendente a sud di Tripoli.
La Siria e le responsabilità della comunità internazionale
Il discorso è diverso per la Siria. Il paese infatti non si trova ancora nella fase post rivoluzionaria: qui lo scontro tra le fazioni in lotta è ancora vivo e drammatico. “I siriani non possono permettersi ancora il lusso di attuare una democrazia rispettosa dei diritti”, scrive Roth.
Il nodo siriano si è presentato da subito come particolarmente complicato, soprattutto per l’impossibilità di trovare un accordo sulle mosse da attuare in seno alla comunità internazionale.
La scelta del boicottaggio di Assad ha incontrato l’opposizione di Cina e Russia, ma anche la scarsa adesione da parte dei paesi che l’avevano promosso: Regno Unito, Francia e Stati Uniti hanno continuato ad avere relazioni commerciali con Rosoboronexport, il principale esportatore russo di armi e importatore in Siria.
La proposta di demandare la questione alla Corte penale internazionale – un’operazione che, secondo Roth, avrebbe potuto assicurare “una certa dose di giustizia alle vittime” – è stata fatta cadere nel vuoto per l’opposizione di Cina e Russia, ma anche per il disaccordo sul fronte occidentale (l’Unione europea è riuscita a prendere una posizione comune sul dossier Siria solo nel dicembre 2012).
Stesse divergenze si riscontrano tra i paesi della Lega Araba (che hanno ipotizzato sanzioni mai applicate) e anche tra le principali potenze del Sud del mondo, che non se la sono sentita di schierarsi a favore di un intervento armato esterno: l’esempio della Libia era ancora troppo vicino.
Qui l’intervento Nato non si è limitato alla protezione dei civili, ma ha agito attivamente per il cambiamento del regime. Un’ingerenza “troppo arrogante” per essere sostenuta da paesi come Brasile, India, Pakistan e Sudafrica, che pure sedevano nel Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Ed è proprio sul ruolo e sulle responsabilità della comunità internazionale che si sofferma Roth al termine del suo lungo editoriale.
Le raccomandazioni
Se il passaggio rivoluzionario e la costruzione di uno Stato di diritto sono compiti che attengono principalmente ai cittadini, è anche vero che spesso la comunità internazionale svolge un ruolo determinante.
Human Rights Watch fornisce allora una road map per quegli Stati che, pur estranei ai processi politici di transizione, hanno la possibilità di influenzarli.
Ecco i punti principali:
– Basarsi (sempre) sugli stessi principi. Per l’Occidente è stato facile appoggiare le rivolte popolari contro quei regimi tradizionalmente considerati ‘nemici’.
Lo stesso atteggiamento però non è stato tenuto quando le rivolte hanno incrociato la strada degli interessi petroliferi e militari. Un esempio su tutti è il Bahrein.
Qui la presenza della Quinta Flotta americana e la vicinanza al regime saudita hanno fatto sì che l’Occidente non sostenesse la lotta del popolo bahrainita.
– Non dimenticare mai la giustizia. Perchè il passaggio da una rivolta, soprattutto se violenta, a una democrazia non porti con sé i semi di problemi futuri, è necessario applicare da subito principi equi di giustizia.
Anche in questo caso il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha due pesi e due misure.
Garantendo l’impunità all’ex presidente yemenita Ali Abdullah Saleh, o chiudendo gli occhi sull’amnistia proclamata in Libia all’indomani della morte di Gheddafi su tutte le atrocità commesse durante i combattimenti. Ancora, tollerando le pressioni del Regno Unito sulla Palestina perchè si impegnasse a non adire Israele davanti alla Corte penale internazionale al momento della conquista dello statuto di ‘Stato Osservatore’. Appoggiando Karzai nei suoi sforzi per insabbiare il rapporto della commissione indipendente afgana che accusava di atrocità i signori della guerra, oggi tra i principali alleati o membri del governo in carica.
– Parlare al popolo. Una delle conquiste più importanti della primavera araba è quella di aver portato in primo piano le rivendicazioni dei cittadini di questa regione. L’invito rivolto alla comunità internazionale è di non affidarsi più solo ai salotti della diplomazia.
– Rispettare (per primi) il diritto. Finchè gli Stati Uniti o il Regno Unito (e come loro tanti altri paesi della comunità internazionale) si rifiuteranno di investigare seriamente sugli atti di tortura compiuti dai loro uomini in varie parti del mondo e nelle proprie carceri (come nel caso di Guantanamo), non potranno dirsi adatti a indicare la strada ad altri.
– Contribuire allo sbocciare di altre primavere. Alzare la voce contro le violazioni dei diritti umani che si registrano nel mondo, per mettere fine all’impunità di tutti i regimi dittatoriali.
February 4, 2013
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