Tunisia. Tra proteste, attentati e incertezza sul futuro

In attesa di capire quali evoluzioni porterà il “dialogo nazionale” tra Troika e opposizioni, una testimonianza dai giorni delle proteste seguite all’omicidio Brahmi.

A quattro giorni dalla morte del deputato di sinistra e membro dell’Assemblea nazionale Mohamed Brahim (fondatore di Attayar Achaabi, integrato al Fronte Popolare) – e meno di sei mesi dopo quello di Chokri Belaid – che ha provocato manifestazioni in tutto il paese, nelle quali è morto un manifestante a Gafsa (Mohamed Belmefti), alcune città continuano ad infiammarsi.

Sidi Bouzid, città simbolo della rivoluzione del 2011 che ha dato i natali proprio a Brahmi, è di nuovo in rivolta.

Sono proseguite fino al 29 luglio le proteste di fronte alla sede della Wilaya (Governatorato) tra i giovani ostili al governo di Ennahda e i sostenitori della Troika, con l’intervento massiccio delle forze dell’ordine che non hanno risparmiato gas lacrimogeni e manganellate ai presenti.

Dopo la riunione nella sede regionale dell’UGTT di Sidi Bouzid, la centrale sindacale – appoggiata da UTICA (sorta di Confindustria locale) e dall’ordine degli avvocati – dichiara l’autogestione della città da Tunisi, in segno di protesta e di antagonismo al potere centrale, con la costituzione di un coordinamento regionale di salvezza nazionale, incaricato di gestire la normale amministrazione fino alla caduta del governo.

Ma la decisione ha scatenato critiche tra i rappresentanti del movimento contestatario perché considerata non in linea con le richieste popolari.

Mentre la situazione continua ad essere molto tesa in tutto il territorio, è nella capitale che sembrano decidersi le sorti del paese.

Prosegue il sit-in permanente di fronte al palazzo del Bardo, sede dell’Assemblea Nazionale Costituente, pur sgomberato nella mattinata di ieri dalla polizia con metodi repressivi e violenti e dichiarato zona militare chiusa, con altissima presenza di forze dell’ordine.

Barriere di filo spinato a proteggere l’area ed evacuazione dei partecipanti a cui si erano aggregati alcuni deputati dell’ANC (ormai il numero di eletti all’Assemblea ad aver congelato le proprie attività ha quasi raggiunto quota 73, un terzo dell’intera assise). La partecipazione a quella che già veniva definita la “nuova Tahrir” è però minoritaria rispetto al fine settimana – circa 8000 le persone in piazza secondo il blog indipendente Nawaat – tra manifestanti delle due fazioni. Oltre all’opposizione, in piazza ci sono anche i sostenitori del governo e della “legittimità” istituzionale a manifestare, separati da un cordone di agenti.

Molti definiscono il movimento di protesta poco rappresentativo ed “elitario”, caratterizzato da limiti evidenti, dovuti alla scarsa presenza delle masse fautrici delle rivolte del 2011, e alla debolezza dei messaggi politici dei manifestanti, che non raccolgono rivendicazioni essenziali, come la giustizia per i due martiri Belaid e Brahmi e per tutti i caduti della rivoluzione del 2011 (ferita ancora aperta per il paese).

Di vero c’è certamente che le battaglie combattute a Tunisi non sono le stesse che si giocano a livello regionale, soprattutto nelle zone più economicamente in difficoltà.

Durante la conferenza stampa di ieri, intanto, il presidente del consiglio Laarayedh (Ennahda) ha dichiarato che il governo continuerà ad esercitare le proprie funzioni, non prendendo in considerazione le rivendicazioni della piazza, che spinge per il suo scioglimento e che fin dai primi istanti successivi all’omicidio politico ha accusato la coalizione in carica di essere responsabile morale e diretta degli assassini, oltre che dell’aumento della violenza repressiva.

Lo stesso premier ha promesso un’accelerazione dei tempi istituzionali per portare a termine il processo di transizione, che prevede elezioni legislative per il prossimo 17 dicembre (giorno in cui, nel 2010, Mohamed Bouazizi si era immolato accendendo la scintilla della rivoluzione), il varo della Costituzione entro la fine di agosto e una legge elettorale per ottobre. Un programma poco realista, considerata la paralisi che si sta profilando in seno all’Assemblea costituente.

Molto provocatorie sono apparse inoltre le parole di Laarayedh, che oltre ad escludere aperture hanno denigrato le istanze promosse dalle persone scese in piazza: “è necessario fare ricorso al dialogo politico e non alle piazze pubbliche”.

Nel frattempo, l’UGTT rivendica il suo “ruolo storico nella salvaguardia del paese come già fu in occasione del 14 gennaio 2011”, a detta di Sami Tahri, segretario generale aggiunto della centrale sindacale. Dopo un incontro con i partiti politici di opposizione e i rappresentanti della società civile, la commissione amministrativa del principale sindacato tunisino ha definito i seguenti punti programmatici (accogliendo così alcune delle rivendicazioni emerse dalla piazza):

– La dissoluzione dell’attuale governo;

– La costituzione di un governo di salute nazionale formato da tecnici che si impegnino a non presentarsi alle prossime elezioni;

– La formazione di un comitato di esperti per l’approvazione della Costituzione.

Tuttavia, la questione della dissoluzione dell’ANC non è ancora stata definita e trova l’opposizione tunisina fortemente divisa.

Una parte della sinistra laica si oppone al suo scioglimento, definito “suicida” da molti, e all’intervento dei militari negli affari pubblici. Il timore è la riproduzione dello “scenario egiziano”, auspicato invece – ben prima dell’omicidio Brahmi – da un altro schieramento dell’opposizione, sulla spinta del locale movimento Tamarrud (emulazione dei “ribelli” egiziani).

La stessa vedova del martire Belaid, divenuta un’icona dopo l’omicidio del marito nel febbraio scorso, spera nell’intervento dell’esercito (che però non ha lo stesso peso che al Cairo) e ribadisce che “quello avvenuto in Egitto non è un golpe, è la continuazione della rivoluzione”.

Il paese rischia comunque di cadere in una spirale destabilizzante, o meglio in una “guerra civile a bassa intensità”.

Uno scenario, quello tunisino, che potrebbe veder concludersi qui la specificità della sua esperienza di transizione democratica pacifica.

Il quadro si è ulteriormente aggravato quando, nella serata di ieri, si è appresa la notizia dell’uccisione di 9 militari a Chaabi, nella regione di Kasserine, al confine con l’Algeria, operata – secondo fonti ufficiali – da un gruppo armato legato ad Al-Qaida attivo nell’area. Il governo annuncia il “lutto nazionale di tre giorni” a seguito di quello che è il più grave attacco alle forze armate tunisine dopo la rivoluzione e che avviene in un momento di profonda crisi politica per il paese.

Secondo l’agenzia AFP, nella notte a Kasserine si sono registrate manifestazioni di collera da parte di numerosi abitanti della zona e scontri tra poliziotti, manifestanti e partigiani del governo in carica. Sono stati anche rilevati tentativi di saccheggio e incendio della sede locale del partito Ennadha al grido di “Kasserine ne sera jamais humilié” (Kasserine non verrà mai umiliata).

La tensione continua a salire e le prossime ore potrebbero essere decisive per capire quale direzione imboccherà il paese. Il ministero della Difesa ha diffuso un comunicato in cui non esclude il verificarsi di altre operazioni terroristiche di più ampio respiro. Il governo potrebbe così ritrovarsi imbavagliato tra (presunti) tentativi di destabilizzazione esterni e l’inasprirsi dello scontro interno.

October 28, 2013di: Debora Del Pistoia (COSPE) da TunisiTunisia,Articoli Correlati:

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