Marocco. Retorica della transizione e detenuti politici: due facce della stessa medaglia

Si chiama ‘FreeKoulchi’ (“Liberi tutti”) ed è la campagna a sostegno dei prigionieri d’opinione lanciata da alcune organizzazioni per appoggiare la protesta degli attivisti incarcerati durante le manifestazioni degli ultimi mesi. Una ventina di loro sono in sciopero della fame da diverse settimane e altri li seguiranno se la loro situazione non verrà riesaminata.

di Giulia Fagotto Si tratta di giovani studenti, oppositori (siano essi di sinistra, islamici o amazigh) e artisti dissidenti condannati nella maggior parte dei casi per reati di diritto comune e in processi di dubbia regolarità, che si trovano a subire gravi violazioni dei diritti fondamentali. Tutti ricordano le vicende giudiziarie che hanno portato alla reclusione del rapper Mouad Belghouat e del poeta Younès Belkhdim, tra gli esponenti più in vista del ’20 febbraio’ a Casablanca, entrambi accusati di vilipendio per aver pubblicato alcuni testi contro il sistema di corruzione su cui si regge gran parte del potere politico e economico. Sebbene non tutti gli episodi godano di tale risonanza, le cifre parlano chiaro: ad oggi sono circa 200 i detenuti politici marocchini. Una ventina quelli che stanno portando avanti lo sciopero. La protesta dei primi attivisti è cominciata a fine marzo, a ridosso della visita in Marocco del presidente francese François Hollande, rimasto però insensibile alle loro rivendicazioni. Revisione dei processi e liberazione immediata. È nell’indifferenza delle autorità locali e della comunità internazionale che questi detenuti si trovano a dover combattere una lotta quotidiana per la sopravvivenza, costretti in minuscole celle in condizioni igieniche deplorevoli, privati di assistenza medica e giudiziaria. Secondo le principali ong nazionali e internazionali, il numero degli attivisti finiti in arresto sarebbe in continuo aumento, in seguito all’ondata di proteste che ha investito il paese a partire dal febbraio 2011. Le violenze fisiche e psicologiche sono all’ordine del giorno nei commissariati e nei centri di detenzione mentre il regime, nonostante la retorica dispiegata a difesa di una ‘transizione democratica’ di cui si stentano a vedere gli effetti, non esita a far ricorso all’intimidazione e alla repressione per sedare i movimenti d’opposizione e la contestazione sociale, la cui intensità aumenta con l’aggravarsi della crisi economica in cui versa il paese. Oltre alle condanne a carico dei membri del movimento 20 febbraio, nei mesi scorsi la morsa delle autorità si è stretta sui sindacalisti a Ouarzazate, sugli abitanti del quartiere popolare Sidi Youssef a Marrakech, che avevano manifestato contro il rincaro delle bollette di acqua ed elettricità, e su quelli della regione di Khenifra, scesi in strada per protestare contro la marginalizzazione dei loro villaggi sulle pendici del Medio Atlante. La repressione ha interessato anche quei campus universitari dove il sindacato studentesco (UNEM) è meglio radicato. Un esempio su tutti a Fes, in cui l’intervento delle forze di polizia a causato la morte di uno studente nel gennaio scorso. Nelle prigioni, intanto, la situazione si sta aggravando. Le testimonianze che arrivano dal carcere di Taza, nel nord del Marocco, sono agghiaccianti: Tarik Alhamani membro dell’Unem, è al suo 66 giorno di sciopero della fame. Ormai allo stremo delle forze, ridotto su una sedia a rotelle, continua ad essere oggetto di minacce e intimidazioni che coinvolgono anche membri della sua famiglia. Le delicate condizioni dello studente, che persevera in un ostinato digiuno, rischiano di degenerare e di scatenare l’attenzione mediatica su un tema così scottante per il palazzo reale. Per evitare lo scandalo – la situazione ricorda quella di un altro detenuto politico, Ezedine Erroussi, che aveva sfiorato la morte con una protesta ad oltranza circa un anno fa – Rabat sta tentando una mediazione, di cui però al presente non si vedono i frutti. Simili sono le circostanze in cui si trovano Abdessamad Haydour, membro del ’20 febbraio’ condannato per aver insultato il sovrano durante una manifestazione (anche per lui sono più di 60 i giorni di sciopero della fame nel carcere di Taza), e Mounir Ait Khafou, Soufiane Segheri, Hassan Koukou, Mohamed Aloualiki, Hassan Alhmouche, attivisti dell’UNEM rinchiusi nella tristemente celebre prigione di Toullal2 a Meknes. Oltre alla revisione dei processi, con la loro azione intendono denunciare le violenze che le guardie praticano sistematicamente nei loro confronti, con il silenzio complice dell’amministrazione penitenziaria e del sistema giudiziario. La mancanza d’igiene, il sovrappopolamento, i trattamenti degradanti e le umiliazioni rappresentano la quotidianità per questi detenuti, i quali sono spesso sottoposti anche al regime d’isolamento totale. La campagna ‘FreeKoulchi’ ha riportato a galla la spinosa questione della tortura, pratica ancora diffusa in Marocco secondo quanto emerso dai racconti dei detenuti e degli ex prigionieri. La Corte europea dei diritti dell’uomo e l’Alto commissariato delle Nazioni Unite, così come Amnesty International e Human Rights Watch, si erano già pronunciati in proposito, sottolineando l’uso sistematico di pratiche violente per estorcere testimonianze durante i cosiddetti “fermi provvisori”. Interrogato recentemente sulla questione, durante un’intervista rilasciata a TV5 Monde, il primo ministro Benkirane ha affermato che ormai la tortura è un metodo desueto e il ricorso all’uso della forza nelle carceri civili è sempre più raro. Eppure, i rapporti delle organizzazioni non governative sia nazionali che internazionali, le proteste che si levano dalle carceri affermano il contrario. Nel suo rapporto globale sulla situazione dei diritti umani anche il dipartimento di Stato ribadisce la sua netta condanna dei ‘metodi’ cui vengono sottoposti fermati e sospetti, in particolare gli attivisti saharawi. A questo proposito è significativo citare il caso del militante Amedine Haidar aggredito dalla polizia marocchina lo scorso novembre in seguito al suo incontro con l’inviato personale del segretario generale dell’Onu per il Sahara occidentale, Christopher Ross. L’episodio, documentato da un filmato disponibile su Youtube, non ha dato origine a nessun tipo di inchiesta o d’indagine da parte delle autorità competenti, evidenziando la totale assenza di controllo (o il silenzio compiacente delle autorità) con cui agiscono le forze di polizia e sicurezza marocchine. La campagna per la liberazione dei prigionieri politici, una pagina che si pensava ormai chiusa e relegata al Marocco degli ‘anni di piombo’, arriva poi in una fase cruciale per la storia del paese. L’apertura concessa da Mohammed VI con la nuova Costituzione sembra aver sortito, per il momento, nient’altro che un effetto placebo: se da un lato ha rassicurato la comunità internazionale circa l’intento di avviare una transizione democratica, placando così anche parzialmente la rabbia della popolazione scesa in piazza due anni fa, dall’altro non ha apportato alcuna modifica strutturale al sistema di garanzia delle libertà individuali e dei diritti umani (nonostante i dispositivi previsti nel nuovo ordinamento per la loro protezione). In questo senso, le rivendicazioni dei prigionieri e la campagna in loro sostegno assumono una portata più ampia. Oltre a segnalare gli abusi e il “ritorno delle vecchie pratiche”, l’iniziativa vuole dunque portare alla luce la violazione di uno dei principi cardine dei sistemi democratici: la libertà d’espressione. Questo principio, sancito dall’articolo 28 della nuova Costituzione, è da tempo al centro del dibattito in un paese in cui sussistono ancora enormi ostacoli strutturali, oltre che scarsa volontà politica, alla sua effettiva implementazione. Con un tasso di analfabetismo che sfiora il 50% – raggiungendo punte del 70% tra la popolazione femminile -, un sistema giudiziario strettamente controllato dal potere centrale – nonostante venga definito “indipendente” dalla carta fondamentale, e che più volte si è pronunciato contro la libertà di stampa -, i pochi media indipendenti faticano a raggiungere larghe fasce della popolazione e a stabilire un pluralismo informativo. L’azione capillare del sistema di controllo del makhzen, in netto contrasto con le previsioni dell’articolo 28, si inserisce dunque in un contesto problematico, andando facilmente ad individuare e colpire le voci dissidenti che riescono ad emergere a livello locale e nazionale. May 9, 2013 Marocco,Articoli Correlati:

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