Libia. Choucha, il campo dell’abbandono e dei diritti negati

Oggi nel deserto al confine libico-tunisino resta incerto il destino di rifugiati e richiedenti asilo, che entro giugno 2013 saranno ‘sfrattati’. I paesi europei – giustificandosi con la scusa della crisi – si stanno dimostrando restii a ricevere queste persone protette in teoria dalle norme del diritto internazionale.

di Francesco La Pia

Nel febbraio 2011 aveva inizio il conflitto tra le truppe fedeli al colonnello Gheddafi e gli insorti libici, in cui i bombardamenti delle forze Nato ebbero un ruolo decisivo.

Durante i mesi di combattimento si è assistito ad un esodo di massa verso la Tunisia, con oltre 300 mila persone che hanno varcato il confine di un paese alle prese con le violenze ‘post-rivoluzione’.

Il flusso di fuggitivi era composto sia da cittadini libici che da immigrati nella Jumhuriyya (Repubblica) di differenti origini (in maggioranza provenienti dal Sahel, dal Maghreb e dalle regioni sub-sahariane).

Per accogliere tale mole di individui sono stati creati numerosi campi profughi, di cui il più importante è quello di Choucha, situato in una fascia predesertica nei pressi delle città frontaliera di Ben Guerdane.

Gestito dall’UNHCR (l’Alto commissariato Onu per i rifugiati), l’OIM (l’Organizzazione internazionale per le migrazioni) e da Emirati Arabi, Islamic Relief, esercito e Mezzaluna rossa tunisini, durante il suo periodo di funzionamento la struttura ha accolto oltre 4.000 persone.

Come testimoniato da diversi report ministeriali e di organizzazioni internazionali, la sua gestione è stata complessa. Specie nel 2011 la situazione sanitaria e la sicurezza sono state le due problematiche principali.

Come afferma Nabil Ben Bekhti – protection officer dell’ufficio dell’HCR di Tunisi -, Choucha doveva essere un campo di ‘transito’.

Ben presto però la realtà ha smentito questa visione.

Dopo la fine delle ostilità i cittadini libici sono rientrati nel proprio paese e più di 200.000 persone sono state rimpatriate – con un programma dell’OIM, finanziato dalla comunità internazionale – verso i propri stati d’appartenenza.

Un’operazione che ha interessato soprattutto cittadini marocchini, turchi, filippini e cinesi.

Ma per gli oltre 1.700 rifugiati e richiedenti asilo ancora presenti a Choucha la situazione si fa ogni giorno più complessa.

Originari di paesi come Eritrea, Somalia, Sud Sudan, territori palestinesi ed Iraq, si trovano in una condizione d’impasse.

Come comunicato dall’UNHCR di Tunisi, entro giugno 2013 la struttura è destinata a chiudere a causa del ridispiegamento dei fondi internazionali verso nuove zone di conflitto, in particolare verso Giordania e Turchia, paesi che stanno accogliendo la gran parte dei profughi siriani.

La crisi umanitaria in Tunisia però è imminente, poiché già a partire dagli inizi di dicembre non verranno più garantiti i servizi di assistenza e per chi ancora resta in attesa nel campo il destino appare incerto.

I 1.280 rifugiati riconosciuti attendono di essere accolti in Europa o negli Stati Uniti.

I paesi del Vecchio Continente però – giustificandosi con la scusa della crisi – si stanno dimostrando restii a ricevere queste persone protette in teoria da norme dalle norme del diritto internazionale.

Ancor più grave è la condizione delle 326 persone a cui lo status di rifugiato non è stato riconosciuto.

Ma c’è un’altra constatazione allarmante da fare.

Nonostante la Tunisia abbia ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951, il suo protocollo del 1967, nonché la Convenzione dell’Unione Africana, all’interno del corpus normativo nazionale non è mai stata introdotta una legislazione riguardante il diritto d’asilo.

Tali persone si ritrovano quindi a vivere in un vuoto giuridico sin qui colmato dall’UNHCR, che con la propria partenza le lascerebbe in una condizione de facto irregolare nel deserto tunisino.

A questo proposito Nabil Ben Bekhti ha precisato che l’obiettivo dell’Alto commissariato “non è quello di abbandonarli nel deserto” e che l’agenzia ONU “ha avviato un programma di rimpatrio con l’Organizzazione internazionale delle migrazioni per pagare il biglietto d’aereo (verso il paese d’origine) e dare un piccolo contributo economico”.

In gergo tecnico è quello che viene definito un “rimpatrio volontario”.

Osservando però la dinamica con cui si produce, l’elemento della volontarietà sembra del tutto assente.

La scelta a cui sono sottoposte queste persone è quella tra l’abbandono nel deserto in condizione di clandestinità o il ritorno al proprio paese senza alcun progetto di vita.

In questa situazione l’Unione Europea – insignita di recente del nobel per la pace – sta optando per l’ennesimo fallimento in materia di rispetto dei diritti dei fondamentali (nel caso specifico dei diritti dei rifugiati), dichiarandosi incapace di accogliere nel suo vasto territorio 1.200 persone tra profughi ed esuli.

D’altro canto – per quanto riguarda l’atteggiamento dei suoi partner mediterranei – manca una politica di adeguamento normativo che possa tutelare i rifugiati e richiedenti asilo anche nella sponda sud, mentre l’approccio al fenomeno migratorio continua a concentrarsi solamente sul controllo esternalizzato dei flussi diretti verso lo spazio comunitario.

Intanto, nel silenzio della comunità internazionale, si sta consumando una nuova emergenza umanitaria in cui, alle porte del deserto maghrebino, quasi 2.000 persone attendono di conoscere il proprio destino.

27 novembre 2012

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