La Carta di Lampedusa. L’etica può farsi diritto, non è un’utopia

Oltre il terreno delle modifiche legislative è arrivato il momento di prendere in mano la questione delle prassi applicate (o, troppo spesso, disattese). Nella direzione di principi affermati nella Carta di Lampedusa.

Da anni il dibattito pubblico sulle riforme, o sulle nuove politiche europee in materia di immigrazione, ha occultato un progressivo inasprimento delle prassi amministrative che spesso ha preceduto le modifiche legislative, o che hanno resistito agli interventi di controllo della giurisprudenza, finendo poi per essere ribadite ancora una volta dal legislatore. E’ successo in Italia, ai tempi del disegno di legge Amato-Ferrero, poi fatto naufragare per lo scioglimento anticipato delle camere.

Negli stessi mesi nei quali l’attenzione generale era concentrata sulle proposte di legge discusse in Parlamento, nel dicembre del 2007, da parte del Ministero dell’Interno, si negoziavano i protocolli operativi con la Libia, recepiti successivamente nel Trattato di amicizia siglato da Berlusconi e Gheddafi nel 2008.

Protocolli operativi che spianarono la strada ai respingimenti collettivi verso Tripoli e costituirono una sperimentazione delle pratiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera, poi sanzionate dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo con la condanna dell’Italia (caso Hirsi) nel 2012.

Anche in altri paesi europei, come in Italia, le procedure amministrative di respingimento negli aeroporti e nei porti, la detenzione amministrativa informale e il restringimento delle possibilità di ingresso legale e di successiva regolarizzazione, o di mantenimento della condizione di regolarità, per non parlare del ricongiungimento familiare e dei regimi di protezione sociale per le vittime di tratta, hanno risentito di scelte discrezionali delle autorità di polizia e dei vertici dei Ministeri dell’Interno.

Per queste ragioni il processo verso la Carta di Lampedusa, nella complessità e nelle articolazioni che sono fin qui emerse, non si può ridurre ad una sterile contrapposizione tra chi suggerisce un elenco di soluzioni tecniche, che potrebbero essere oggetto di interventi legislativi, e chi invece esprime un progetto che potrebbe sembrare a qualcuno “utopico”, tendente a rimettere in discussione la dimensione etica ed il modo stesso di considerare le migrazioni e di inserirle nelle politiche sociali, estere ed interne dei diversi paesi.

La libertà di circolazione ed il rispetto dei diritti fondamentali di tutti i migranti, quale che sia la loro condizione di ingresso o di soggiorno non sono valori negoziabili, come troppo spesso si è fatto in passato, in nome della sicurezza e del controllo delle frontiere.

Il superamento delle norme che comportano la criminalizzazione e la precarizzazione dei migranti, di tutti i migranti, quale che sia la loro provenienza e la loro condizione giuridica, non può ottenersi restando sul terreno della riforma della normativa vigente. La svolta ”politica” e “legislativa” davvero necessaria deve verificarsi semmai a livello europeo, perché non ci sono più i margini per una modifica della normativa nazionale, a causa delle scelte e delle normative (direttive e regolamenti) già adottate da parte dell’Ue.

Sul terreno delle prassi applicate e della difesa legale, come sul piano della comunicazione pubblica e della formazione di un movimento di opinione, si deve partire dal livello locale per collegare poi i movimenti e le rivendicazioni sul piano nazionale ed internazionale.

E’ questa la scelta di metodo “dal basso” che ha caratterizzato il percorso partecipato che ha portato all’elaborazione della Carta di Lampedusa, una scelta che ha messo in crisi quelle organizzazioni che sono caratterizzate da processi decisionali verticali e burocratici, basate sul meccanismo della delega e non della partecipazione diretta.

Una partecipazione diretta che si è espressa, e si continuerà ad esprimere anche attraverso web conference, e che poi è culminata con la presenza a Lampedusa, in pieno inverno, di oltre trecento persone provenienti non solo dall’Italia, ma dal sud e dal nord del mondo. Una partecipazione dunque non meramente virtuale, ma che si ripeterà nei luoghi di conflitto, in tutti i luoghi in cui i diritti fondamentali dei migranti, al pari dei diritti fondamentali dei cittadini, possano essere violati nella forma e nella sostanza.

Negli stessi giorni nei quali si stava definendo la Carta di Lampedusa – tuttavia – si sono verificati in Sicilia altri casi di trattenimento illegittimo e di respingimento collettivo, proibiti da tutte le Convenzioni internazionali.

Prima si sono verificati oltre 60 casi di “respingimenti differiti” adottati dal Questore di Siracusa a partire dal 9 gennaio 2014 in base all’art. 10 comma 2 del T.U. sull’immigrazione, nei confronti di potenziali richiedenti asilo provenienti dal Gambia, che a differenza di molti altri loro connazionali, piuttosto che essere ospitati in un centro di accoglienza, sono stati condotto nel Centro di identificazione ed espulsione di Milo (Trapani), ormai prossimo alla chiusura.

Soltanto lì hanno potuto presentare un’istanza di protezione internazionale, restando però in una condizione di trattenimento amministrativo che appare discriminatoria ed in contrasto con i divieti di respingimento affermati dall’art. 19 del T.U. sull’immigrazione, a fronte della situazione del mancato rispetto dei diritti umani in Gambia, come desumibile dai report delle principali organizzazioni umanitarie.

Altri provvedimenti di “respingimento differito”, questa volta con l’intimazione a lasciare entro sette giorni il territorio nazionale, sono stati notificati, sempre nel mese di gennaio, a decine di potenziali richiedenti asilo, sempre a Siracusa, abbandonati poi sulla strada, davanti al centro di accoglienza Umberto I.

Persone prive di mezzi e di informazioni, che il provvedimento di respingimento adottato da parte del Questore di Siracusa, con l’invito a lasciare entro sette giorni il territorio nazionale, consegna ad una condizione, difficilmente reversibile, di clandestinità.

Non si vede infatti verso quale paese si potrebbero recare regolarmente essendo privi di documenti di identità. Nel frattempo decine e decine di minori non accompagnati rimangono in strutture del tutto inadeguate, privi di uno status preciso, come si sta verificando anche ad Augusta (Siracusa) e nel Centro di primo soccorso ed accoglienza (CPSA) di Pozzallo (Ragusa), senza che per loro vengano applicate le procedure di garanzia previste dalla legge italiana e dalle convenzioni internazionali. In stato di abbandono proprio per effetto dei provvedimenti delle autorità amministrative.

Successivamente, come si è appreso dalla stampa locale, oltre 60 egiziani adulti, o ritenuti tali, giunti giovedì 30 gennaio ad Augusta, sono stati rimpatriati dopo una notte trascorsa in un locale chiuso dentro l’area portuale, sotto stretto controllo di polizia, riconosciuti sulla base della mera nazionalità dal console del loro paese, sulla base delle “procedure semplificate” previste dagli accordi di riammissione tra Italia ed Egitto, quelli stipulati da Maroni e mantenuti da Monti e da Letta.

Due voli charter verso Il Cairo, il giorno successivo, il 31 gennaio, e le forze di polizia hanno eseguito misure di allontanamento forzato che si possono definire come respingimenti collettivi, vietati dall’art.4 del quarto Protocollo allegato alla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, oltre che dall’art. 18 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Documenti che dovrebbero avere valore vincolante per le autorità di polizia, e per i vertici del Ministero dell’Interno che impartiscono gli ordini, ma evidentemente non è così. […] Ed i minori non accompagnati di nazionalità egiziana, sembra circa 60, rimangono ancora rinchiusi in un palazzetto, ad Augusta, probabilmente per essere identificati ed interrogati. Forse qualcuno sarà ancora riconosciuto come maggiorenne e rimpatriato. […]

I rimpatri collettivi in Egitto sono avvenuti in violazione di tutte le norme previste dal Codice frontiere Schengen del 2006, dalla Direttiva rimpatri 2008/115/CE e dal Decreto legislativo 25 del 2008 sulle procedure per il riconoscimento dello status di protezione internazionale. Rimpatri collettivi che appaiono tanto più ingiustificati se si pensa che, con decreto del Tribunale di Torino del 5 settembre 2013, è stata rigettata la richiesta di proroga del trattenimento, nel CIE di via Brunelleschi, di un cittadino egiziano, “del tutto prescindendosi dalla situazione specifica personale”, ma proprio sulla base dell’”attuale grave e precaria situazione politica dell’Egitto (che) rappresenta, quanto meno, una grave ragione umanitaria che non consente, in un futuro ragionevolmente prossimo, il rientro nel suo paese”.

Come al solito, si dirà che nessuno degli egiziani respinti dopo lo sbarco ad Augusta aveva fatto richiesta di asilo. Come se nessuno volesse accorgersi di quello che sta succedendo in Egitto e della sorte che aspetta le persone che vengono rimpatriate in questo modo.

Su questi respingimenti collettivi ormai non protesta più nessuno, neppure le organizzazioni del progetto Praesidium (OIM ,UNHCR, Save The Children e Croce Rossa), che in passato avevano criticato queste prassi, e che dovrebbero garantire assistenza in frontiera a tutti gli immigrati che vengono sbarcati dalle navi della missione militare Mare Nostrum, a bordo delle quali opera personale del Ministero dell’Interno, ai fini dell’identificazione dei naufraghi, prima ancora che possano toccare terra.

In questa ultima occasione non risulta che personale del progetto Praesidium abbia potuto incontrare i migranti sbarcati ad Augusta prima del loro rimpatrio forzato in Egitto.

Di certo, negli ultimi mesi, le attività di informazione e di assistenza poste in essere dagli operatori di queste organizzazioni (anche quando presenti ad Augusta) non hanno potuto raggiungere che una minima parte dei migranti che hanno fatto ingresso in Italia attraverso le frontiere marittime meridionali, spesso per esigenze di soccorso e salvataggio, nella maggior parte dei casi potenziali richiedenti asilo, minori non accompagnati ed altri soggetti a vario titolo vulnerabili.

Intanto il porto di Augusta, base della missione militare-umanitaria Mare Nostrum, si conferma molto più “funzionale” di Lampedusa per l’organizzazione e l’esecuzione dell’accoglienza detentiva e dei respingimenti collettivi.

Identificazione a bordo delle navi, collegamento rapido con l’aeroporto di Catania o forse anche di Comiso, stretta sorveglianza militare, nessun giornalista in giro. Quello che ci vuole per eludere Convenzioni internazionali e Direttive dell’Unione Europea, oltre che le nostre leggi in materia di respingimenti e protezione internazionale e la Costituzione italiana.

Ecco perché il prossimo appuntamento per la difesa effettiva dei diritti fondamentali dei migranti e per il ripristino della legalità costituzionale, dopo Lampedusa, dovrà essere Augusta, luogo di sbarco, quindi di trattenimento informale e di respingimento collettivo.

[…]

Sospendere le politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera

Le scelte maturate a Bruxelles da parte del Consiglio e della Commissione ed a livello italiano gli accordi stipulati tra il ministro della difesa Mauro ed il suo omologo libico si inseriscono nel quadro degli interventi decisi dall’Unione Europea e dalle sue agenzie parallele di controllo delle frontiere esterne FRONTEX ed EUROSUR con la creazione delle missioni EUBAM Libia.

Questa è l’esternalizzazione dei controlli di frontiera che respinge ed uccide i potenziali richiedenti asilo, o li condanna ad una detenzione terribile nei paesi di transito.

Malgrado la situazione sul territorio libico, con particolare riferimento alle violenze subite dai migranti fosse nota da tempo, l’Unione Europea, con la decisione del Consiglio del 22 maggio 2013, piuttosto che aprire un canale umanitario, ha promosso ed avviato l’operazione EUBAM Libia, inviando alcune decine di “esperti” ed agenti di polizia con il compito di formare le forze di polizia libiche e successivamente di assistere le autorità libiche nei controlli di frontiera.

Di certo l’Italia vi partecipa attivamente, dall’inizio del mese di giugno dello scorso anno, su richiesta del premier libico Zeidan. Più recentemente si è appreso dello scambio di personale militare per la formazione congiunta tra Italia e la Libia, nella prospettiva di imbarcare personale libico a bordo delle navi della Missione militare-umanitaria Mare Nostrum.

La Libia rimane però un paese che non ha sottoscritto neppure la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, e sono ormai quotidiane le testimonianze degli abusi e degli stupri subiti dai migranti e dalle migranti in transito in quel paese.

Ogni storia documenta una situazione ancora più grave di quella descritta nei report delle principali agenzie umanitarie. Se non si garantisce la tutela dei potenziali richiedenti asilo in Libia, come negli altri paesi di transito, e se non si creano le condizioni per salvaguardarne vita, integrità fisica e dignità, con particolare riferimento ai soggetti vulnerabili come donne e minori, qualsiasi accordo, o misura, che potrà assumere l’Unione Europea per la sorveglianza dei confini ed il contrasto dell’immigrazione irregolare, non potrà che ritorcersi immediatamente sulle vittime, sempre più lontane dalla possibilità di ottenere il riconoscimento del diritto alla protezione internazionale, e costrette ad invocare i parenti per il pagamento di un riscatto, unica possibilità, fino ad ora, per sottrarsi alle violenze dei trafficanti.

Occorre dunque sospendere tutte le missioni militari-umanitarie nei paesi di transito, fare chiarezza sui compiti e sulle modalità operative delle unità navali italiane inserite nelle missioni Frontex e di quelle adesso impegnate nella missione Mare Nostrum che vanno riconvertite ad una esclusiva funzione di salvataggio, senza fungere impropriamente da uffici di polizia galleggianti per la selezione e la schedatura dei naufraghi.

Tutti gli accordi bilaterali di riammissione fin qui stipulati a livello nazionale ed europeo vanno verificati alla stregua del rispetto effettivo dei diritti umani nei paesi terzi contraenti. L’Unione Europea deve sospendere tutti gli accordi multilaterali con paesi che non rispettano i diritti umani e che non garantiscono effettivamente il riconoscimento del diritto di asilo ed il diritto al soggiorno legale a coloro che fuggono da guerre, conflitti interni o persecuzioni di vario tipo.

Aprire corridoi umanitari dai paesi di transito

L’Unione Europea ed i singoli stati che ne fanno parte dovranno adottare tutte le misure necessarie affinché le persone che richiedono protezione non debbano più rischiare la vita nel cercare di raggiungere il territorio europeo.

Gli Stati membri dovranno essere indotti ad adottare misure che permettano in particolare ai potenziali richiedenti asilo di accedere in maniera sicura al sistema di protezione dell’Unione, senza ricorrere a trafficanti o a reti criminali e senza mettere in pericolo la propria vita.

Per questa ragione occorre una drastica riconversione delle missioni Frontex, Eubam ed Eurosur nell’interesse prevalente della salvaguardia della vita e dei diritti fondamentali, a partire dal diritto di chiedere asilo, della persona migrante.

[…]

Per un nuovo diritto di asilo europeo

E’ necessario sostituire l’attuale Regolamento Dublino e salvaguardare la libertà di circolazione e di scelta (del paese dove vivere) dei richiedenti asilo, garantendo al contempo standard di accoglienza uniformi nei diversi paesi europei

Va salvaguardata comunque la libertà di scelta motivata del richiedente asilo in ordine al paese nel quale stabilirsi senza che questo comporti l’abbassamento degli standard di accoglienza nei paesi del nord-europa.

A fronte del default attuale del sistema di accoglienza italiano, con attese di oltre un anno in luoghi che violano la dignità delle persone e nei quali si verificano “trattamenti inumani e degradanti”, si dovrà impedire il trasferimento di richiedenti asilo da altri paesi europei verso l’Italia, primo paese di ingresso. Occorre che le associazioni raccolgano elementi di prova da fare valere quando si tratterà di opporsi ai trasferimenti Dublino verso l’Italia. Dovrà essere svolto un lavoro capillare di monitoraggio che solo le associazioni indipendenti possono fare.

[…]

Detenzione amministrativa e confinamento

Chiudere tutti i centri di detenzione. Ridurre al minimo i casi di detenzione amministrativa e vietare la pratica della detenzione informale nei centri di prima accoglienza

Occorre bloccare tutte le prassi di trattenimento amministrativo in frontiera e nelle aree limitrofe, prassi, spesso comportamenti materiali. che violano il diritto internazionale ed europeo, con particolare riferimento alla condizione dei minori, delle donne e dei potenziali richiedenti asilo.

Le misure di accoglienza non possono trasformarsi in limitazioni della libertà personale al solo scopo di ottenere il rilascio delle impronte digitali. Occorre garantire altresì che le misure di trattenimento dei migranti in frontiera, o nella zona contigua, siano sempre soggette a una convalida giurisdizionale e abbiano la durata più breve possibile.

Vanno vietati e comunque denunciati e contrastati sul territorio, tutti i centri di detenzione informale, magari camuffati da centri di prima accoglienza, in prossimità dei valichi di frontiera o nelle zone aeroportuali, nei quali i migranti rimangono per un tempo indeterminato in condizioni di promiscuità, senza potere accedere alle procedure di asilo, con il rischio concreto di subire un provvedimento di respingimento, spesso senza neppure la possibilità di essere informati e di accedere alla difesa legale.

Le tragedie umane e gli abusi verificatisi nei Centri di prima accoglienza di Lampedusa, di Pozzallo (RG), di Porto Empedocle (AG), adesso chiuso, non si dovranno più ripetere. Nessuna “umanizzazione” è possibile con il ricorso a lavori di ristrutturazione edilizia, che per alcuni sono soltanto innalzamento delle barriere in modo da impedire le fughe o di rendere più pesante la condizione del migrante dopo il successivo arresto.

Occorre altresì chiudere definitivamente i Centri di identificazione ed espulsione, gli attuali CIE, ne rimangono ancora aperti 4 su 12, con una modifica sostanziale della disciplina del respingimento, con l’abrogazione del cd. respingimento differito e del reato di clandestinità, e con la riduzione drastica dei casi di espulsione con accompagnamento forzato e di conseguente trattenimento amministrativo che dovrà essere soggetto al controllo di giudici togati e non più di giudici di pace.

Per chiudere davvero i centri di detenzione amministrativa vanno abrogate tutte le figure di reato legate direttamente o indirettamente alla condizione di irregolarità, che nel tempo hanno fatto consolidare quello che viene definito come un “diritto penale d’autore”. Ma si dovrà intervenire anche sulle leggi in materia di tossicodipendenze e sulla normativa in materia di recidiva. I risultati delle politiche, anche giudiziarie, della “tolleranza zero” sono sotto gli occhi di tutti.

Aprire su scala europea e nazionale canali legali di ingresso per lavoro

Come è stato auspicato a livello europeo dalla Risoluzione del Parlamento Europeo adottata il 23 ottobre del 2013, e come già si proponeva di fare l’Unione Europea dopo il Consiglio di Tampere nel 1999, occorre riaprire canali di ingresso legale per lavoro, superando il sistema delle quote e della chiamata a distanza, che negli anni ha fatto incrementare i lavoratori irregolari ed ha costretto tutti gli Stati a periodiche regolarizzazioni.

Per una svolta in questo campo vanno adottate procedure trasparenti e certe di regolarizzazione permanente su base individuale per quelle persone che, seppure in una condizione di irregolarità, dimostrino la disponibilità di un alloggio e l’esistenza di un valido contratto di lavoro.

Per un contrasto effettivo contro la discriminazione. Dalle parole ai fatti

Va radicalmente riformulata la legge sulla cittadinanza, introducendo il principio dello ius soli, senza “temperamenti” che di fatto potrebbero mantenere l’attuale discrezionalità da parte delle prefetture.

Vanno trasferite agli enti locali tutte le competenze attualmente in capo alle questure ed alle prefetture, soprattutto per quanto concerne il rilascio, il rinnovo e la revoca dei permessi di soggiorno. Va combattuta qualunque forma di discriminazione istituzionale, diretta o indiretta.

I responsabili di atti discriminatori devono esser chiamati personalmente a risarcire le vittime dei danni derivanti da tali prassi. Occorre creare su scala regionale Osservatori indipendenti contro la discriminazione ed un Ufficio nazionale contro le discriminazioni che sia del tutto autonomo rispetto ai ministeri ed ai governi in carica.

* Leggi la versione integrale dell’articolo su Melting Pot

February 07, 2014di: Fulvio Vassallo Paleologo per Melting Pot*Afghanistan,Egitto,Iraq,Libia,Marocco,Siria,Tunisia,Articoli Correlati:

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