Iraq, dieci anni di “terribili abusi”

Nel giorno del decimo anniversario dall’invasione americana, la stampa non fa che parlare dell’ondata di attacchi che ha provocato la morte di oltre 60 persone. Ma dal 2003 non c’è stato giorno in cui un iracheno non ha perso la vita. Sono gli eroi abbandonati dalla comunità internazionale e dimenticati dai media.

di Francesca Manfroni

Altri morti, altri feriti (220 secondo le ultime notizie). E’ il bilancio di una guerra infinita, che si combatte tutti giorni e che nel solo mese di febbraio ha ucciso oltre 200 persone.

Tuttavia, non si possono dimenticare le 365 vittime registrate nel settembre 2012, tra i mesi più sanguinoso dopo la partenza dell’esercito statunitense. Una carneficina, considerando anche che il numero dei feriti, e degli attentatori morti (64 in quella occasione).

Perché in Iraq, nel nuovo Iraq, la violenza è una piaga quotidiana, che si respira per le strade e si subisce nelle carceri. In un rapporto diffuso l’11 marzo 2013, l’Iraq è descritto come un “paese intrappolato in una spirale di odio e violenze, abusi e violazioni ai danni della popolazione civile”.

“Dieci anni dopo la fine del repressivo regime di Saddam Hussein, molti iracheni godono di maggiore libertà ma i traguardi fondamentali che avrebbero dovuto essere conseguiti nel campo dei diritti umani devono ancora diventare realtà”, tuona Hassiba Hadj Sahraoui, vicedirettrice del Programma Medio Oriente e Africa del Nord per Amnesty International.

“Né il governo di Baghdad né le ex potenze occupanti hanno aderito agli standard richiesti dal diritto internazionale e, per questo motivo, la popolazione sta ancora pagando un prezzo altissimo”.

Tra le ingiustizie denunciate da tutte le organizzazioni che operano nel paese, vale la pena di ricordare il frequente ricorso alla tortura per obbligare le persone arrestate sulla base delle leggi antiterrorismo ad ammettere la propria ‘colpevolezza’.

Detenuti e confessioni che vengono abitualmente esibiti durante conferenze stampa o programmi televisivi, prima dei processi o dei verdetti, in grave violazione del principio d’innocenza e del diritto di ogni persona a ricevere un processo equo.

La pena di morte, sospesa dopo l’invasione del 2003, è stata reintrodotta dal primo governo post-occupazione non appena entrato in carica, e le esecuzioni sono riperse a pieno ritmo già nel 2005.

Da allora, la pena capitale è stata eseguita su almeno 447 prigionieri, tra cui lo stesso Saddam Hussein e alcuni dei suoi più stretti collaboratori. Ma sono centinaia i prigionieri che attendono l’esecuzione nel braccio della morte, 129 quelli uccisi solo nel 2012.

Una situazione che ha portato migliaia di persone a scendere in strada nelle aree a maggioranza sunnita per protestare contro le detenzioni arbitrarie, gli abusi sui detenuti, l’uso delle leggi antiterrorismo e la fine dell’atteggiamento discriminatorio del governo nei loro confronti.

Nel frattempo, i gruppi armati continuato ad attaccare non solo obiettivi governativi, ma anche la popolazione civile, non risparmiando neppure i pellegrini.

“Alla caduta di Saddam Hussein nel 2003 sarebbe dovuto seguire un percorso di fondamentali riforme nel campo dei diritti umani, ma quasi dal primo giorno le forze di occupazione si sono rese responsabili di torture e altre gravi violazioni dei diritti umani ai danni dei prigionieri, come dimostrato dallo scandalo delle torture ad Abu Ghraib che ha coinvolto le forze statunitensi e dal pestaggio a morte di Baha Mousa a Bassora, un uomo che era sotto custodia britannica” denuncia ancora Amnesty International per bocca della Sahraoui.

Come si legge nel rapporto di Amnesty International, tortura e altre oscenità sono l’elemento più ricorrente e diffuso dello scenario iracheno. Si va dalle scariche elettriche sui genitali e su altre parti del corpo al semi-soffocamento con una busta di plastica, passando per pestaggi, diniego di cibo, acqua e sonno.

Poi ci sono gli stupri. Come nel caso di Heba al-Shamary, una di quelle detenute accusate di terrorismo (come moltissimi altri sunniti) e che ha denunciato di essere stata torturata e violentata ripetutamente da parte delle forze di sicurezza.

Ma come si può pretendere giustizia dalle autorità irachene quando i due ‘volenterosi’ che hanno invaso il paese si rifiutano di fare i conti con i crimini commessi dalle loro forze di sicurezza (più o meno convenzionali)?

E’ Human Rights Watch a sottolineare l’evidente contraddizione tra la retorica dei diritti umani e il reale comportamento dei protagonisti della Seconda Guerra del Golfo.

Sia in Gran Bretagna che negli Usa, nulla è stato fatto per indagare a fondo sulle massicce violazioni compiute dagli agenti delle due potenze, senza contare che ai cittadini iracheni vittime di abusi è stata negata a la possibilità di adire alle corti statunitensi.

L’impunità diretta e indiretta, come nel caso della tacita complicità rispetto ai crimini di cui si è macchiata la nuova leadership al potere, è all’origine del radicamento di istituzioni deboli e corrotte che fanno dell’Iraq un paese profondamente ingiusto e pericoloso.

Un paese in cui i contractor stranieri (per lo più inglesi e americani) hanno operato in una condizione di totale impunità tra il 2004 e il 2009, e quando Washington ha finalmente deciso di intervenire sulla scia dei numerosi scandali che hanno visto protagonisti i suoi mercenari, le risposte sono state del tutto blande: spesso le pene si sono tradotte in un semplice allontanamento dei responsabili dal paese, e nel peggiore dei casi nell’interruzione del rapporto lavorativo con la PMSC.

Ma Washington e Baghdad non ha mai smesso di collaborare nel campo della cosiddetta ‘sicurezza’.

E’ così che oggi – come conferma il Wall Street Journal -, la Cia starebbe ulteriormente rafforzando il suo ‘sostegno’ al Servizio Antiterrorismo iracheno (CTS), già noto per aver commesso gravissimi abusi ai danni dei detenuti.

Quegli stessi abusi che hanno fatto scoccare la scintilla della rabbia della popolazione, in particolare sunnita, che oltre alla mancanza di diritti e servizi fondamentali, sconta anche l’eterna guerra per il potere, che spesso si maschera dietro all’odio interconfessionale.

Tra i numerosi appelli contro la violenza imperante, anche quello di Human Rights Watch che chiede alle autorità irachene l’immediata apertura di un’indagine trasparente e indipendente sui fatti dell’8 marzo scorso a Mosul, quando le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco su manifestanti pacifici provocando una vittima e diversi feriti, così come accaduto il 25 gennaio a Falluja, dove sono rimaste uccise nove persone.

March 20, 2013

Iraq,

Gestione cookie