EAU. Il maxi-processo ai ‘94’ e la paura delle Primavere

Il processo iniziato a marzo contro i 94 cittadini accusati di complotto contro il governo è solo l’ultimo atto di una politica di repressione sempre più stringente che lo Stato del Golfo sta attuando contro le presunte minacce alla propria sicurezza. Ispirate, secondo le autorità, proprio dalle Primavere arabe.

di Anna Toro

Tra gli accusati ci sono un ex giudice, Ahmed Al-Zaabi, e un ex presidente dell’Ordine degli avvocati, Mohamed Al-Roken.

E poi insegnanti, difensori dei diritti umani, funzionari pubblici, imprenditori, accademici, studenti e perfino Sultan Bin Kayed al-Qasimi, cugino di uno sceicco che fa parte di una delle famiglie dominanti degli Emirati.

I pubblici ministeri li descrivono come membri di una rete islamista, al-Islah (“Riforma”), che starebbe cercando di rovesciare la leadership in uno degli angoli più ricchi e stabili del Medio Oriente.

Denunciano i loro presunti legami con i Fratelli Musulmani egiziani, e il tentativo di istituire, attraverso un colpo di Stato, una sorta di “governo parallelo”, ispirato a quello che si è instaurato in Egitto dopo la rivoluzione.

I difensori dei 94 imputati li ritraggono invece come un gruppo di vittime del panico indotto dalla Primavera araba tra i governanti del Golfo, che da un po’ di tempo a questa parte hanno iniziato a vedere minacce ovunque, dai media alle riunioni delle associazioni, fino alle chiacchiere riformiste sul web e i social network.

E se ormai è chiara a tutti la natura politica di questo maxi-procedimento collettivo, le associazioni per i diritti umani (locali, ma soprattutto internazionali) da tempo lamentano il mancato rispetto degli standard minimi del giusto processo da parte delle autorità degli Emirati.

Per non parlare delle denunce, da parte dei 94, di torture e abusi durante la lunga detenzione a cui sono stati sottoposti prima del 4 marzo, quando ha avuto inizio il processo.

Ingresso vietato agli osservatori

Secondo le testimonianze raccolte dall’associazione per i diritti umani Alkarama, gli imputati sono stati sottoposti ad abusi e torture, compreso l’isolamento, la privazione del sonno, percosse con cavi elettrici, incappucciamento forzato durante le telefonate e per andare in bagno, oltre alla permanenza in celle ghiacciate.

“Almeno otto imputati hanno denunciato alla Corte la tortura, ma questa non sembra prendere in considerazione le accuse, né ha intenzione di ordinare un’inchiesta sui fatti” scrive l’associazione con sede a Ginevra in un comunicato.

Quando, il 4 marzo, gli imputati sono stati portati presso il Tribunale federale di Abi Dhabi, molti di loro avrebbero mostrato i segni fisici e psicologici dei maltrattamenti. Alcuni sembravano sotto l’effetto di droghe o sedativi.

“Quando si lamentano, vengono loro somministrate delle pillole, che però non si sa cosa contengano” racconta un parente di uno dei detenuti.

La prima udienza ha riguardato 84 persone (tra cui 13 donne) mentre i dieci imputati rimanenti, presentati dalle autorità come “latitanti”, sono stati processati in contumacia. Hanno potuto assistere in aula solo i familiari, alcune reti televisive e organizzazioni legate allo Stato, mentre agli osservatori internazionali è stato impedito l’accesso.

Tutti gli imputati si sono dichiarati non colpevoli. Secondo le associazioni per i diritti umani e i parenti dei detenuti, infatti, le accuse si baserebbero tutte su false confessioni estratte da tre degli accusati sotto tortura.

E proprio uno di loro, Ahmed Al Ghaith Al Suweidi, durante la prima udienza ha ritirato la propria confessione con un improvviso colpo di scena: “So che quello che sto per dire potrebbe costarmi la vita, ma respingo tutte le accuse e chiedo alla Corte di proteggere la mia vita e quella della mia famiglia” ha detto.

La settimana successiva gli imputati sono tornati in tribunale e di nuovo i servizi di sicurezza dello Stato hanno impedito agli osservatori internazionali di entrare in aula.

Secondo un comunicato stampa ufficiale del ministero della Giustizia, alla seconda udienza avrebbero assistito 180 persone, oltre a 6 rappresentanti delle organizzazioni locali della società civile e 21 giornalisti. Questi ultimi, sempre secondo Alkarama, tutti legati alle autorità governative.

“Anche in questo caso molti detenuti sono apparsi alla Corte in uno stato miserabile – racconta l’associazione, basandosi in gran parte sulle testimonianze dei parenti – Issa Al Sari, ad esempio, era delirante, parlava da solo e non prestava attenzione a ciò che succedeva intorno a lui. Secondo i testimoni, era senz’altro sotto l’effetto di farmaci”.

“Processo-farsa”?

Secondo le organizzazioni internazionali, il processo è stato costruito quasi interamente intorno ai messaggi pubblicati sui social media, e a diverse interviste rilasciate dagli imputati a proposito della ondata di cambiamenti nella regione e la partecipazione limitata dei cittadini nelle decisioni politiche del paese.

“Leggendo le accuse contenute nei loro fascicoli, ci si rende conto che sono basate solo su sospetti” ha spiegato al Guardian Khalid al-Roken, parente di due dei 94 sotto processo.

“Solo perché ogni tanto si riunivano in qualche casa, questo non significa certo che stessero organizzando un colpo di Stato”.

Così, la gestione di questo caso ha spinto un gruppo di sette organizzazioni internazionali per i diritti umani a unirsi in una condanna comune: “Le autorità degli Emirati Arabi Uniti – scrivono – hanno portato avanti gravi violazioni del diritto negando arbitrariamente a molti membri della famiglia, agli osservatori e ai media internazionali l’accesso alle udienze”.

Della coalizione fanno parte Amnesty International, Human Rights Watch, Arabic Network for Human Rights Information, Alkarama, Cairo Institute for Human Rights Studies, Gulf Centre for Human Rights, International Federation for Human Rights.

Ancora, le associazioni denunciano la detenzione di almeno 64 dei prigionieri in località segrete fino ad un anno prima del processo.

“Molti degli imputati non hanno avuto accesso all’assistenza legale fino a fine febbraio”, si legge nel comunicato. “Quando sono riusciti finalmente a incontrarsi con i loro avvocati, un rappresentante del pubblico ministero dello Stato era presente nella stanza, a portata d’orecchio, in violazione del requisito della riservatezza nelle conversazioni tra avvocati e clienti previsto dal diritto internazionale”.

E mentre si teme per la sicurezza di al-Suweidi, il detenuto che ha ritrattato la confessione, la coalizione parla di un processo che fin dall’inizio è stato “pieno di difetti legali e procedurali”.

I Fratelli Musulmani e il timore del “contagio”

Ma perché gli Emirati Arabi Uniti, che si sono sempre vantati di essere uno degli Stati più avanzati e stabili della regione, è stato avviato questo giro di vite sui dissidenti?

Molti analisti concordano sul fatto che, a far tremare le famiglie regnanti (e in generale di tutta la regione del Golfo) è il nome dei Fratelli Musulmani, a cui si ispira il gruppo al-Islah di cui farebbero parte molti dei 94 imputati del maxi-processo (ma si parla anche di finanziamenti e di legami tutt’altro che segreti).

Annunciando l’inizio delle udienze nel mese di gennaio, il procuratore generale Salem Saeed Kubaish, aveva affermato che il gruppo da tempo si sarebbe infiltrato in scuole, università e ministeri. “Il loro obiettivo non dichiarato – ha detto – è prendere il potere e sfidare i principi fondamentali su cui si basa il sistema di governo”.

Il giudice sostiene anche che questa “società segreta” avrebbe messo il suo “proposito sedizioso” nero su bianco, pur ammettendo bizzarramente che questi “documenti”, in grado di provare la loro colpevolezza, sono ormai stati distrutti.

In realtà al-Islah, formazione fino a poco tempo fa tollerata dallo Stato, aveva lanciato semplicemente alcune petizioni pubbliche, in cui chiedeva riforme politiche come l’elezione da parte dei cittadini di tutti i membri del Parlamento e del Consiglio Federale Nazionale, e che questi venissero dotati di pieni poteri legislativi.

Chiedevano anche la divisione dei poteri e la loro indipendenza, lo stop allo stato di sicurezza e il rispetto degli standard minimi sui diritti umani.

Petizioni che hanno dato il via alla prima ondata di arresti e alla stretta del governo su tutto ciò che veniva percepito come una ‘minaccia alla sicurezza dello Stato’. Che, finora, non era stato toccato dall’ondata di proteste e rivolte che ha caratterizzato il mondo arabo durante le cosiddette “primavere”.

L’attivista per i diritti umani di Dubai, Ahmed Mansour, vede infatti il caso dei 94 alla sbarra come un tentativo, da parte degli Emirati, di schiacciare qualsiasi gruppo che potrebbe essere “fisiologicamente nato e potenziato dalla Primavera araba”.

Ma per le associazioni non è un buon motivo per non garantire agli imputati almeno un giusto processo, soprattutto alla luce degli impegni legislativi e internazionali assunti dagli EAU.

La Costituzione del paese, infatti, vieta la tortura ai sensi dell’articolo 26.

Gli Emirati sono anche tra i firmatari della Carta araba dei diritti umani, che all’articolo 13 stabilisce che “i processi sono pubblici, salvo casi eccezionali, che possono essere giustificati dagli interessi della giustizia in una società che rispetti le libertà umane e i diritti”.

Con la ratifica della Convenzione internazionale contro la Tortura nel luglio dello scorso anno, infine, il paese sembrava veramente deciso a eliminarne l’utilizzo dal suo territorio.

“Quando gli Emirati Arabi Uniti a novembre sono stati ammessi al Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, hanno promesso di mantenere i più alti standard nella promozione e tutela dei diritti umani”, ha dichiarato Ann Harrison, vice direttore di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africa. “Ma la gestione di questo processo da parte delle autorità solleva inquietanti interrogativi circa questo impegno”.

Una stretta repressiva che comincia a imbarazzare anche gli alleati occidentali degli EAU, come Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, che con il paese hanno forti legami commerciali. Che però, in ogni caso, non vengono messi in discussione.

“L’America non ha certo intenzione di abbandonare i suoi alleati del Golfo. C’è troppo in gioco”, ha commentato Mustafa Alani, analista presso il Gulf research center di Ginevra. “Questi provvedimenti così severi, tuttavia, rendono sempre più difficile per gli americani girarsi dall’altra parte e far finta di niente”.

Intanto, il processo contro i 94 attivisti continua, con la prossima sessione prevista per il 16 aprile.

(Foto/ Cofano, via Flick CC)

11 aprile 2013

Emirati Arabi Uniti

Gestione cookie