Voci da Gaza/1. “Piango mia nonna mentre cadono le bombe”

“Dopo 66 anni vissuti come rifugiata, mia nonna sognava ancora di tornare nella sua terra di origine. E’ morta mentre cadevano le bombe, conservando sempre quella speranza”. Una voce da Gaza.

Scrivo queste parole con il cuore in lacrime, non solo perché osservo mia nonna morire lentamente per un cancro, ma anche per ogni bambino e vita innocente spezzata da un F16 o da un drone israeliano.

Erano le 3 del mattino e tutta la mia famiglia sedeva nella stessa stanza. C’era anche la famiglia di mio zio, costretta a lasciare la sua casa a causa dei bombardamenti nel quartiere. L’elettricità non c’era, usavo il mio telefono per fare luce e per continuare a scrivere aggiornamenti degli assalti israeliani sui social network. Mia nonna stava esalando i suoi ultimi respiri.

All’improvviso, ripetuti attacchi aerei assordanti hanno colpito un obiettivo poco lontano da noi. E’ stato orribile: tutti, bambini e adulti, siamo scoppiati in lacrime.

Attraverso il muro sentivamo anche i nostri vicini urlare, le donne in particolare. Il mio cuore tremava così come erano scossi i muri, le porte e il tetto di casa nostra. Continuavamo a sentire razzi e bombe cadere, non sapendo tuttavia dove sarebbero atterrati.

Saremmo stati noi i prossimi target?

Guardavo mia nonna. Il suo petto si muoveva in modo strano. Mi chiedevo se per caso sentisse anche lei il rumore delle esplosioni. Aveva smesso di parlare da due giorni.

Sono salito un attimo in camera mia. Da sotto, ho sentito mia madre che comincia a piangere, urlando. Ho saputo così che mia nonna era morta.

Awni, è morta”, mi ha detto con voce tremante. E’ più difficile per lei, più che per chiunque altro. L’ho abbracciata, ho provato a consolarla, mentre in cuor mio non riuscivo a darmi pace.

Quando qualcuno muore dove va la sua anima?”, mi ha chiesto Nahla, 10 anni. L’ho abbracciata e le ho risposto: “In un posto molto più sicuro e bello, dove non ci sono esplosioni o attacchi aerei israeliani”.

Ho acceso la radio. I dati ufficiali parlano di almeno 72 morti e oltre 500 feriti dall’inizio dell’aggressione israeliana contro oltre 1 milione e mezzo di civili nella Striscia di Gaza (oggi, 14 luglio, il numero delle vittime è salito a 172, circa 1230 i feriti, ndt).

Vivere qui significa fare esperienza di genocidio, terrore, paura, assalto, attacchi, droni e un’oppressione infinita. Tra donne e bambini regna soltanto orrore e timore. Lo spargimento di sangue palestinese continua con Israele che ripetutamente commette crimini e impone punizioni collettive contro l’umanità e il diritto internazionale.

Alba, un nuovo giorno.

Gli uccelli cantano mentre gli F16 sorvolano le nostre teste e sganciano bombe. Non ho chiuso occhio la scorsa notte. Ho uno strano mix di sentimenti: calma e pace si alternano a terrore e paura. Un’altra fortissima esplosione, nella casa di Abu Naser, a 30 metri dalla mia. La strada si riempie di fumo, accompagnato da rumori di sirene e urla diffuse.

Non so quante ore ho dormito negli ultimi due giorni, quanti missili sono stati lanciati dagli F16 sulle case dei civili. Tutti i miei zii, zie e cugini possono soltanto ricordare l’orrore della scorsa notte.

A poche miglia da qui, in Israele, sono tutti al sicuro, hanno dei rifugi sicuri per ripararsi dai razzi. Nessun israeliano è stato ferito o ucciso. E nel frattempo, i nostri bambini affrontano i missili soltanto con il loro petto”, mi dice mio zio. “La nostra agricoltura, le nostre industrie: tutto è devastato, l’acqua inquinata, e il blocco israeliano continua. Cosa è rimasto qui a Gaza che rappresenti una minima forma di vita?”.

Tutti i miei parenti si sono riuniti a casa di mio nonno, nel centro del campo profughi di Jabalia, prima di andare al cimitero per seppellire mia nonna. Sempre con il sottofondo delle bombe.

Non possiamo tenere un funerale, gli attacchi non ce lo consentono. Lei se ne va per sempre, ma le sue memorie continueranno a vivere con me e tutti noi qui, a cui ha lasciato tanto amore e affetto.

Quando rientriamo a casa riceviamo una telefonata dall’esercito israeliano. Ci dicono che dobbiamo abbandonare le nostre case.

Così è accaduto per tutte le altre famiglie del campo. Ci chiedono di raggiungere il centro di Jabalia oppure Gaza City. Tutti i componenti della mia famiglia vanno via per raggiungere la casa dei parenti di mio padre. Tranne me, io rimango, da solo in questa casa, facendo funzionare il mio computer grazie alla batteria di una macchina, almeno posso continuare a scrivere e condividere aggiornamenti.

Quando penso a mia nonna la ricordo sempre mentre mi racconta le storie della Palestina prima della Nakba del 1948. Mi parla di fattorie, di giardini bellissimi, del sapore di casa e di libertà. Mi racconta del suo villaggio – del nostro villaggio – prima di cadere sotto l’occupazione israeliana.

Tra le tante storie ce n’è una, di cui ho scritto un post qualche tempo fa:

Avevo 10 anni, uscivo di casa e correvo verso la collina. Un pastore mi passava accanto con dozzine di agnelli e pecore. Pascolando si dimenticò dietro una pecorella. Pensavo tornasse per recuperarla ma non lo fece. Così l’ho presa e portata a casa, ed ogni giorno tornavo sulla collina per incontrare il pastore, e riconsegnargli la pecora. Ma non l’ho più visto, né saputo nulla di lui. Aspettai un mese, e alla fine mio padre decise di farne un grande pranzo per tutta la famiglia e i vicini”.

Dopo 66 anni vissuti come rifugiata, la mia cara nonna sognava ancora di tornare nella sua terra di origine.

E’ morta mentre cadevano le bombe, conservando sempre quella speranza.

*Awni Farhat ha 25 anni. Interprete e traduttore, operatore sociale e attivista comunista, è nato e vive nel campo profughi di Jabalia nella Striscia di Gaza. Ha un blog su Tumblr, dove il 10 luglio ha pubblicato questo articolo. La traduzione è a cura di Stefano Nanni.

July 14, 2014di: Awni Farhat*Israele,Palestina,Articoli Correlati:

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