“E’ vero che i leader politici e religiosi provano a ‘rubare’ la scena, ma la gente in strada continua a mostrare solo la bandiera irachena, e non di partito”. Murad, Salam, Dina, Noof, Ismaeel, dicono la loro sulle proteste di piazza, e parlano di un altro Iraq. Che è sempre esistito.
Niente proteste questo venerdì. Piazza Tahrir a Baghdad ha accolto stavolta passanti, per lo più famiglie, e turisti in visita nella capitale.
Nessun segnale di cedimento, da parte dei manifestanti, ma un naturale stop in un paese in cui l’Eid al-Adha, la festa del sacrificio, ricorrenza musulmana che avviene ogni anno a 40 giorni dalla fine del Ramadan, il mese del digiuno, è un evento molto sentito.
Tutto si ferma: uffici pubblici, lavoro, scuole. La gente ne approfitta per visitare parenti e amici, e per godere ancora delle calde giornate di settembre per un pic-nic in montagna o a bordo di fiumi e ruscelli, soprattutto nel Kurdistan iracheno.
“Sono tutte marionette, non vedi?”, è l’opinione di Murad, venuto a Dohuk da Zakho, città a nord-est della regione, al confine con la Turchia, per salutare il signor Saloo, suo maestro di infanzia a Sinjar.
“Quando i leader religiosi dicono di fermarsi tutti eseguono senza battere ciglio. La realtà è che non c’è nulla di nuovo in queste proteste, la politica è sempre dietro a controllare”.
Murad evidentemente non crede molto alle ragioni che hanno spinto migliaia di iracheni a scendere in piazza negli ultimi due mesi contro la precarietà dei servizi pubblici e la corruzione dei politici.
“Eppure un tempo in piazza scendevamo insieme”, gli fa eco, sorridendo, il signor Saloo, che oltre ad essere stato il suo insegnante è stato anche suo compagno all’interno del Partito Comunista iracheno.
“Altri tempi”, scuote il capo Murad, “altri tempi. Quelli in cui scrivevo di guerra, poesia e cultura”.
Entrambi oggi risiedono nella provincia di Dohuk, entrambi da sfollati. Murad vive nel campo di Chamishku, che ospita circa 35mila di persone, per lo più appartenenti alla comunità ezida, costrette a lasciare Sinjar oltre un anno fa a causa dell’invasione di Daesh, il cosiddetto Stato islamico.
“Da allora conto i giorni”, dice con tono di rassegnazione, ma non risparmiandosi al dibattito in corso sulle proteste, tra un bicchiere di arak, bevanda all’anice particolarmente apprezzata dagli ezidi, e uno spiedino di carne.
Salam è il più giovane di tutti a tavola. Membro dell’associazione ASFL (Azidi Solidarity and Fraternity League) e fotografo, invece ripone molta fiducia nelle dimostrazioni di piazza, e non vede l’ora di potervi partecipare.
“C’è qualcosa di profondamente nuovo e straordinario”, racconta con entusiasmo. “Ci sono tanti giovani, tante donne, e al di là di anagrafe e genere queste persone alla fine delle manifestazioni puliscono le strade e offrono fiori alla polizia”.
“E’ vero che i leader politici e religiosi provano a ‘rubare’ la scena” – ammette – “ma la gente in strada continua a mostrare solo la bandiera irachena, e non quelle di partito”.
La pensa così anche Ismaeel Dawood, attivista che per Un ponte per… coordina le tante attività di supporto alla società civile irachena, tra cui la piattaforma di ICSSI (Iraqi Civil Society Solidarity Initiative).
“Tanti vogliono cavalcare l’onda delle proteste, ma quello che si nota è una grande maturità della piazza”, afferma. “Ci sono stati rappresentati di partito, parlamentari che sono scesi in piazza e hanno provato a farsi portavoce delle richieste dei manifestanti, che però hanno risposto con fischi e mandandoli via, in modo pacifico naturalmente”.
Ismaeel, che ricorda come “Baghdad sia solo il centro più importante, ma le proteste sono importanti e numerose anche in tante altre città del centro e del sud dell’Iraq”, menziona anche le recenti dichiarazioni di Moqtada al-Sadr, influente leader religioso che ha richiamato i suoi seguaci a una partecipazione rinnovata.
“Ma gli attivisti sono ben attenti a distinguire tra proclami politici e chi davvero ha a cuore le domande di cambiamento”.
Un altro elemento che sembra contraddistinguere le proteste ha a che fare con le dinamiche organizzative. “C’è un grande lavoro a livello di coordinamento, in ogni città, ma tutto si svolge sui social media, tramite il passaparola e senza il bisogno di menzionare l’organizzazione o il movimento di appartenenza. L’opinione della maggior parte degli attivisti è che tutto debba svolgersi così”, spiega Ismaeel.
“E’ importante non rivelare i nomi degli organizzatori, sia per ragioni di sicurezza degli attivisti, tra cui alcuni sono già stati arrestati, sia per non modificare il carattere popolare e di unità delle manifestazioni”.
Due settimane fa una conferenza stampa in piazza Tahrir, a Baghdad, annunciava la formazione di un comitato di “amministrazione delle manifestazioni”, ma ancora oggi, riporta Ismaeel, “non tutti sono d’accordo nel far sì che questa abbia una funzione predominante”.
Chi invece sta avendo un ruolo importante in questi ultimi due mesi di dimostrazioni di piazza sono le donne.
“E’ vero, è un elemento forte delle manifestazioni, ma non bisogna dimenticare che per gli standard iracheni questo è un fatto normale”, ricorda Ismaeel. “C’è stato indubbiamente un periodo in cui le donne sono state assenti dalle manifestazioni, ma era dovuto ai fatti del 2011, quando l’ex-primo ministro al-Maliki favoriva la presenza in piazza di gruppi politici violenti che molestavano intenzionalmente”.
Dina e Noof sono soltanto due esempi di donne che partecipano attivamente alle richieste per migliorare i servizi pubblici e combattere “la piaga dell’Iraq: la corruzione”.
La prima lo fa dall’interno dell’Iraqi Network for Social Media, organizzazione che sostiene la formazione di blogger e citizen journalists, e che, tra le altre cose, sta riportando queste proteste con dirette streaming direttamente dalle piazze.
La seconda facendo parte, da cinque anni, del Baghdad City of Peace Carnival, iniziativa culturale e soprattutto giovanile che si svolge ogni anno il 21 settembre, in occasione della Giornata internazionale della pace.
Ma in piazza, sottolineano, le organizzazioni non c’entrano.
“Siamo prima di tutto irachene”, asseriscono, convinte, entrambe. “Anche perché”, secondo Dina, “le organizzazioni della società civile stanno avendo un ruolo debole nel mobilitare la gente, che scende in piazza più per convinzione individuale e tramite un coordinamento ‘spontaneo’”.
Secondo simili modalità è nata, cinque anni fa, l’idea del Carnival. “Nel 2011 a Baghdad c’era poco o nulla per i giovani, a livello di attività, di iniziative o di spazi culturali aggregativi”, spiega Noof, co-fondatrice di un’iniziativa che quest’anno ha portato al parco Abu Nuass di Baghdad, sul bordo del fiume Tigri, circa 14mila persone. “Per questo abbiamo deciso – un ristretto gruppo di giovani del mio liceo – di fare qualcosa che restituisse a Baghdad il suo antico e bel significato di città della pace”.
“L’obiettivo”, ricorda, “era ed è ancora quello di modificare i risultati che tutti possono ottenere ricercando su ‘Google immagini’: ovvero non più scene di distruzione e violenza ma immagini di gente attiva, che sorride e gode della bellezza di questa città”. Senza budget e affidandosi solo al lavoro volontario di una cinquantina di giovani, dall’accendere candele in occasione della Giornata internazonale della pace si è passati a un festival che quest’anno è stato animato, organizzato e portato avanti da oltre 600 volontari.
Performance animatoriali teatrali, musica, tradizioni e sperimentazioni culinarie: in questo e molto altro è consistito il festival, “mentre nel 2013 e 2014 siamo stati costretti sempre a finire in anticipo per rischi di attentati”.
“E’ stato uno degli eventi più grandi degli ultimi anni in città”, conferma Noof, soddisfatta. “E non abbiamo avuto paura, quest’anno molto meno rispetto al passato”. Anche quando si scende in piazza per protestare, Dina e Noof non sembrano far trasparire alcun segnale di timore.
Entrambe participarono anche nel 2011, a quelle proteste che vennero subito soffocate e si trasformarono in violenza e repressione.
“Ma ora è diverso, ogni venerdì c’è più gente, che non ha paura e scende in piazza con la bandiera irachena, che è più importante della loro appartenenza o colore politico e religioso. Perché di fronte alle ingiustizie tutti siamo uguali”, conclude Dina.
Una bandiera che tuttavia, secondo Ismaeel, fa ancora discutere, “perché porta ancora con sé le tracce di Saddam e della religione, ma è vero che adesso sembra esserci un largo consenso sul suo simbolo di unità”. La diversità in termini di demarcazione delle differenze di identità, comunità e religione, in effetti non manca.
“Tutte le milizie, sciite, kakai, curde, ezide, cristiane… hanno una propria bandiera, tutto ciò che è politico sembra avere il dovere di accentuare i propri interessi. Per questo i colori dell’Iraq assumono un valore ancora più importante”.
Nessuno degli intervistati crede che l’attuale premier iracheno, al-Abadi, rischi il posto in questo momento. Non negano che ci siano stati slogan che ne hanno richiesto le dimissioni, ma il sentimento comune sembra essere attendista e realista.
“Al-Abadi ha una grande possibilità: dimostrare di essere diverso dal partito di appartenenza, al-Dawa, lo stesso di al-Maliki. Rivelare una personalità politica propria e non totalmente influenzata da interessi esterni (quelli di Iran e Stati Uniti in primis, ndr) e appoggiare le speranze della popolazione”, è l’opinione diffusa. “Ad ogni modo, al momento, non pare credibile alcuna alternativa praticabile, che potrebbe equivalere solo al caos” secondo Ismaeel.
Salam, Dina, Noof, Ismaeel e tanti altri, si ritroveranno la settima prossima all’Iraqi Social Forum (ISF), che dal primo al 3 ottobre avrà luogo sempre ad Abu Nuass, a Baghdad. Ognuno con le proprie speranze, le proprie iniziative, la propria determinazione ad affermare che un altro Iraq esiste, ed è sempre esistito.
Nonostante gli oltre 14mila civili morti da gennaio, un terzo del paese ancora sotto il controllo di Daesh, una crisi economica in corso, l’esodo di migliaia di iracheni in Europa, e i circa 3 milioni di sfollati interni.
Individui, organizzazioni della società civile, sindacati: l’ISF si presenta come offerta di un’alternativa. “Un’alternativa non che pretende di cambiare il regime”, conclude Ismaeel, tra i primi sostenitori del Forum, con Un ponte per… e ICSSI, della sua prima edizione nel 2013, “ma provare a sviluppare una democrazia ‘pratica’ che le persone possano ritenere utile per decidere, organizzarsi, scegliere cosa, come e dove farlo insieme, nella vita di tutti i giorni”.
Il Social Forum non pretende di essere neanche rappresentativo di tutto l’Iraq.
Nasce come un’iniziativa di una classe giovani di attivisti politici di Baghdad, che hanno voglia di un paese laico, civile e democratico. E tanti altri giovani arriveranno da altre città. Importante sarà anche la presenza degli internazionali*, che servirà a mandare un messaggio al governo: fuori ci guardano, sanno cosa sta succedendo nelle piazze irachene e ci sostengono”, conclude Ismaeel.
“Sapere di non essere soli rappresenta per noi una grandissima energia”.
*Al Social Forum di Baghdad ci saremo anche noi di Osservatorio Iraq, dove proseguiremo nel tentativo di raccontare l’Iraq che scompare dalle cronache.
**Nella foto (di Salam Ali, che ringraziamo per la concessione): dimostrazioni in piazza Tahrir, nell’ottavo venerdì consecutivo.
September 27, 2015di: Stefano Nanni da Dohuk – Kurdistan irachenoIraq,Articoli Correlati:
- Iraq. Sinjar, quale liberazione?
- Iraq. L’Europa: il sogno o la morte
- Kurdistan iracheno. E’ “colpo di stato”?
- Speciale Iraq/ Costruire normalità, cercare pace
- Iraq. La piazza non molla, e si organizza
- Iraq. Baghdad, sit-in contro la corruzione
- Iraq. La guerra di chi?
- Iraq. Kurdistan, crescere ai tempi di Daesh
- Iraq. La battaglia di Ramadi
- Speciale Iraq/ Qualcosa di diverso
- Speciale Iraq/ “Benvenuti nella città della pace”
- Iraq. Sinjar, quale liberazione?
- Iraq. La piazza non molla, e si organizza
- Perché gli iracheni scendono in piazza