Tunisia. Il tira e molla del dialogo nazionale

Fin da quando è stato lanciato l’appello, lo scorso 23 ottobre, il dialogo ha conosciuto lo scetticismo di molti. Intanto hiwar watani è divenuto himar watani, il “somaro nazionale”. L’immagine è oltremodo significativa perché evoca la lentezza con cui il processo si sta dipanando.

Procediamo con ordine: il 23 ottobre scorso, la troika che da due anni forma il governo – composta dal partito al-Nahda, dal Congresso per la Repubblica (CPR) e da Ettakatol – si è trasformata in “quartetto” per via del crescente ruolo di mediazione dello storico sindacato Unione Generale dei Lavoratori Tunisini (UGTT). L’UGTT ha invitato le parti a siglare una road map necessaria per portare il paese fuori dallo stallo politico, aggravato con l’omicidio di Muhammad Brahmi nel luglio scorso. Da allora, la transizione democratica, cavallo di battaglia post “Primavera Araba” si è trasformata piuttosto in un asinello che prosegue macilento e zoppicante, gravato dai troppi fardelli e aspettative.

In seguito al secondo omicidio politico, in meno di un anno, un folto gruppo di deputati dell’Assemblea Costituente, composto inizialmente da 60 membri, divenuti poi 40, si è ritirato, abbandonando le attività dell’emiciclo in segno di protesta. Ciò ha causato un blocco dei lavori di ratifica finale della Costituzione, nonostante fosse presente il quorum necessario per andare avanti, come ha sottolineato la maggioranza.

La quarta bozza della Costituzione era stata presentata alla Costituente dal suo Presidente, Ben Jafaar, in giugno. L’omicidio di Brahmi è arrivato in un momento molto delicato, cioè quando i deputati stavano lavorando per nominare i membri dell’Istanza Superiore Indipendente per le Elezioni (ISIE) e dovevano raggiungere il consenso sull’ultimo, il nono, dei suoi componenti. Fauzia Drissi, rappresentante dei tunisini espatriati, e Lamia Zarkouni, rappresentante dell’ordine dei magistrati, erano state elette come settimo e ottavo componente della commissione, successivamente a Nabil Baffoun, Mourad Ben Moulaa (membri della prima ISIE del 23 ottobre 2011), Mohamed Chafik Sarsar, Riadh Bouhouchi, Khmayel Fniche e Kamel Ben Massoud. L’ultimo membro doveva essere nominato il 22 luglio 2013.

L’omicidio, la cui responsabilità è ufficialmente ricaduta sulle formazioni salafite, e in particolare su Ansar al-Sharia, è stato un chiaro gesto finalizzato a balcanizzare la transizione.

L’ISIE: CARTINA TORNASOLE DI UNA TRANSIZIONE INCOMPIUTA

Sono sempre più convinto che la Tunisia sia la “terra del diritto”. Questa mia convinzione non nasce soltanto dal dato storico, per cui la Tunisia è stata il primo paese islamico a possedere una (proto)Costituzione nel 1861, ma è dovuta anche alla quantità di studiosi e operatori del diritto presenti nel paese. Se in parte questo si può spiegare grazie all’influenza coloniale francese, è innegabile che la Tunisia abbia dato i natali a molti e illustri giuristi, sia di tradizione islamica che di tradizione “occidentale”.

Da un punto di vista legalistico, la transizione costituzionale tunisina è un unicum e, nonostante i ritardi, può comunque vantare molti meriti, specie al paragone con la Libia e l’Egitto. Da un lato l’allungamento dei tempi è il principale antagonista di ogni transizione, ma non si può negare che ciascun paese proveniente da una situazione rivoluzionaria ha impiegato in media 3 anni per portare a termine l’adozione di una nuova Costituzione.

Le ragioni sono semplici: dopo l’afflato rivoluzionario in cui prevale la logica del “tutto e subito”, finalizzata a prevenire il riemergere del vecchio regime, ogni rivoluzione (uso questo termine in modo assolutamente semplicistico) conosce una fase di rilassamento in cui la logica politica (nel senso pieno del termine) inizia a prevalere.

La sorte dell’ISIE è alquanto indicativa per comprendere appieno i fatti tunisini, perché racchiude in sé l’estro formidabile dei giuristi locali ma anche la dialettica tra i partiti, il mancato accordo e, quindi, la balcanizzazione.

L’ISIE è stata convocata per la prima volta il 18 aprile del 2011 ed è servita ad organizzare le elezioni dell’Assemblea Costituente. Formata da 16 membri e presieduta da Kamal Jendoubi, è stata creata a partire dall’Istanza superiore per la realizzazione degli scopi della rivoluzione. Questi due organi hanno dato propulsione alla transizione e si sono caratterizzati per la totale imparzialità.

Il partito islamico al-Nahda, infatti, minoritario nell’Istanza superiore per la realizzazione degli scopi della rivoluzione, è stato sottorappresentato anche nell’ISIE, ragion per cui aveva chiesto che fosse adottato un altro criterio di selezione dei suoi membri. Al-Nahda proponeva che ciascun membro fosse nominato per consenso, rispettando un criterio di parità. Alla fine è prevalsa una logica diversa, ma giudicata sufficientemente giusta: la nomina di ogni componente è stata condotta in rappresentanza di un determinato gruppo sociale.

In seguito alla vittoria di al-Nahda alle elezioni della Costituente, ove il partito detiene una maggioranza relativa di seggi, e alla formazione del governo di coalizione della Troika, l’ISIE ha subito un processo di riforma, in vista delle elezioni parlamentari che si dovrebbero tenere dopo l’adozione della Costituzione. Con la legge del 20 dicembre 2012, era stato fissato un limite di dieci giorni per l’invio delle candidature, raccolte e scrutinate da una commissione diretta dal Presidente dell’ANC Ben Jafaar.

Secondo la stessa normativa, l’ufficio direttivo deve essere formato da 9 membri, scelti tra i deputati dell’ANC. È chiaro che in quest’occasione la Troika ha cercato di far pesare il proprio successo elettorale, egemonizzando (a detta di alcuni commentatori) il direttivo dell’ISIE. È vero che i membri dell’Istanza proverranno dalla società civile e saranno cittadini che, in possesso dei requisiti necessari, hanno inoltrato la propria candidatura, ma di certo la composizione del direttivo sarà determinante nella selezione.

Il cambiamento delle regole dell’ISIE è sintomatico rispetto alla trasformazione dell’intero processo politico tunisino, sempre meno indirizzato al raggiungimento del consenso nazionale ma dominato dalla spasmodica necessità di ridefinire una solida maggioranza. Un’altra dimostrazione di ciò deriva della “lunga marcia” (piuttosto che una road map) verso la scelta del nuovo Primo Ministro.

AL-NAHDA E IL “MATRIMONIO BIANCO” CON NIDAA TUNIS

Di recente ho avuto il piacere di assistere a una lezione di Abdel Kader Zghal, illustre sociologo tunisino e docente all’Università di Tunisi “9 Avril”. Qualche giorno fa proprio Zghal, in una lettera indirizzata a un quotidiano locale, aveva dichiarato che al più presto avrebbe chiesto la tessera di Nidaa Tunis “per evitare di morire da idiota”. Quest’affermazione rivela, ironicamente, la crescita di consenso che questo partito sta conoscendo. Secondo un sondaggio condotto in maggio, Nidaa Tunis era in ascesa già prima dell’estate e sarebbe in grado di conquistare 90 su 199 seggi parlamentari a fronte dei 68 di al-Nahda.

Il “matrimonio bianco” cui alludeva Zghal, si riferisce, dunque, al tentativo dei due rispettivi leader, Rashid al-Ghannushi e Beji Caid Essebsi, di creare un’alleanza strategica tra i partiti. In un primo tempo, dopo l’incontro segreto tenuto a Parigi in agosto, si era intravista la possibilità che Marzuki cedesse a Essebsi il ruolo di Capo dello Stato, in cambio di supporto. Questa opzione deve aver incontrato almeno due ostruzionismi: uno da parte delle rispettive basi, abituate da lungo tempo ad un reciproca demonizzazione e l’altro da parte dello stesso Essebsi.

Se si dà credito ai risultati dei sondaggi, l’anziano ministro tunisino avrà ritenuto diseguale lo scambio propostogli. C’è anche da sottolineare un altro dato, confermato da più interlocutori: Nidaa Tunis è una nebulosa di personalità differenti anche in contrasto tra di loro che trovano in Essebsi un ago della bilancia. Inoltre, e ciò spiega come mai nella vasta arena politica del paese soltanto questo partito rappresenti un’alternativa “credibile” ad al-Nahda, Nidaa Tunis ha una struttura formata da una base e da quadri dirigenziali. Nulla di paragonabile ad al-Nahda ma, di certo, ben più radicata sul territorio di altri partiti minori.

Con il lancio del dialogo nazionale, i negoziati non si sono arrestati ma anzi al-Nahda ha giocato la carta del laissez faire. La road map, cui sopra si accennava, ha stabilito un termine ultimo per lo scioglimento del governo, la formazione di un esecutivo tecnico, l’adozione della Costituzione e la programmazione di nuove elezioni. Il Primo Ministro ‘Ali Laraayedh si è detto disponibile ad abbandonare la poltrona, ma ha chiesto delle garanzie per il suo partito: la dimissione avverrà soltanto dopo il raggiungimento del consenso sul nuovo esecutivo e dopo l’adozione della nuova legge elettorale.

Ma nei fatti la road map è ben lontana dall’essere rispettata.

A fine ottobre i nomi in lizza per ricoprire il posto del Primo Ministro erano soprattutto due: il Fronte di Salvezza Nazionale, ovvero quella parte dell’opposizione “irriducibile” (che non ha accettato la road map), ha proposto Mohammed Ennaceur, considerato il miglior candidato attorno al quale costruire un consenso. Ennaceur è stato ministro degli Affari Sociali durante il governo di Bourghiba e ha ricoperto alcune cariche durante le primissime fasi della transizione con il governo di Muhammad Ghannushi e poi proprio di Essebsi. È considerato un laico e un uomo politico affidabile, soprattutto non è “l’uomo della troika”.

Al-Nahda sostiene, infatti, la candidatura di Ahmad Mestiri, anch’egli ministro sotto Bourghiba. Il leader comunista Hamma Hammami critica questa scelta perché l’età anziana di Mestiri lo renderebbe – a suo avviso – un pupazzo nelle mani della Troika. Per un brevissimo periodo, i media nazionali hanno riportato anche il nome di Jelloul Ayed, già ministro delle Finanze sotto Essebsi e Ghannoushi, quale possibile uomo gradito al quartetto.

Proprio questo cambiamento ha offerto il destro ad alcuni elementi dell’opposizione che accusano il governo di ritardare il più possibile la sua dissoluzione e di voler prendere tempo, cambiando rapidamente il nome del candidato sostenuto.

A ben vedere il “lasciar fare” di al-Nahda consiste proprio nel non aver candidato ufficialmente nessun politico, per evitare le accuse di manipolazione della scelta del nuovo governo. A detta di alcuni dei suoi deputati, al-Nahda ha accettato di rinunciare a molte richieste pur di concludere la transizione, in ultimo ha rinunciato al potere, prerogativa che derivava dalle elezioni.

Se questo ragionamento è plausibile, non va dimenticato però che gli islamisti, e in generale la Troika, sono accusati di non aver gestito al meglio alcuni dei più importanti ministeri. La compagine economica e quella securitaria sono decisamente deteriorate. Inoltre, dopo l’omicidio di Shukri Belaid, le dimissioni di Hamadi Jebali arrivarono solerti, fatto che una parte dell’opposizione ha sfruttato come un “precedente” per chiedere le dimissioni di Laraayedh.

Il dialogo nazionale, dunque, sembra essere ritardato soltanto da un unico pretesto: piuttosto che un accordo sul nuovo Capo del governo, i due partiti maggioritari cercherebbero dei negoziati proficui per la propria sopravvivenza futura.

Non è casuale che, come ha sottolineato Zghal, dopo l’incontro parigino, pur andando contro il proprio partito, Rashid al-Ghannushi ha bloccato un disegno di legge sulla immunizzazione della rivoluzione ed anche i lavori per la legge sulla giustizia transitoria è momentaneamente sospesa. Ambedue i provvedimenti miravano a colpire il cosiddetto “vecchio regime”, etichetta spesso applicata a Nidaa Tunis ma che, a seconda dell’interpretazione, potrebbe inglobare anche altri soggetti della scena politica tunisina.

LA SOLUZIONE ARRIVERÀ DALL’ALGERIA?

È recente la notizia della dimissione da al-Nahda di Riyad al-Sha’bi membro del consiglio della shura, massimo organo decisionale. Le ragioni del gesto sono state denunciate in un lungo articolo apparso nel fine settimana su al-Jazira. In questo testamento, l’ex nahdawi lamenta lo scollamento dell’élite politica tunisina dai desideri del popolo. A suo avviso, la democrazia rivoluzionaria ha lasciato troppo presto il posto a una presunta democrazia consensuale, basata su accordi stretti in segreto. Questo gesto è indice di un malessere interno alla coalizione di governo, che rischia di sfaldarsi per la troppa attesa e gli scarsi risultati.

L’ultimatum imposto dalla road map intanto è scaduto domenica 17 novembre e la stampa nazionale parla già della possibilità che a mediare la “transizione della transizione” sia il Presidente algerino Bouteflika, con l’appoggio di al-Ghannushi e di Essebsi.

Entrambi si sono recati in Algeria nella scorsa settimana e hanno illustrato lo stato dei fatti, sottolineando come i negoziati siano arrivati ad un punto fermo dato che nessuno dei due è più disposto a cedere nulla. Amour Laraayedh, fratello del Primo ministro e membro della delegazione di al-Nahda che prende parte al dialogo nazionale, ha confermato che il suo partito non ha motivo di abbandonare la candidatura di Mestiri, dichiarazione che rivela la volontà degli islamisti di non cedere sulle garanzie richieste.

Al momento il dialogo tra le parti è fermo e, mentre si scrive, è in corso una riunione del quartetto. L’opzione algerina potrebbe funzionare dato che i due paesi hanno siglato recentemente alcuni accordi di cooperazione di lotta al terrorismo lungo il confine. L’Algeria ha tutto l’interesse a che il governo tunisino torni a svolgere le proprie mansioni e recuperi l’autosufficienza sul versante della sicurezza e del controllo delle frontiere. Resta tuttavia da capire in che misura Bouteflika – o chi per lui, viste le gravi condizioni di salute del Presidente – sarà in grado di esercitare pressioni sui due maggiori leader per indurli al compromesso.

November 19, 2013di: Pietro LongoTunisia,Articoli Correlati:

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