Tunisia. Dall’antimperialismo all’unità nazionale: i molteplici volti di Avenue Habib Bourghiba

Il 24 aprile la Tunisia ha festeggiato per la prima volta nella sua storia post-indipendente la Giornata mondiale contro l’imperialismo. La manifestazione ha avuto luogo nella centrale Avenue Habib Bourghiba ed è stata organizzata dai diplomati dell’Istituto superiore delle arti drammatiche della capitale e dai partiti e movimenti dell’opposizione di sinistra.

di Pietro Longo da Tunisi

Il corteo si è radunato nel pomeriggio dinnanzi alla Banca centrale della Tunisia, dove l’attivista Fathi Shamkhi ha tenuto una lezione sul significato dell’imperialismo nel XXI secolo e sulla funzione del debito come strumento di “dipendenza”.

Portavoce di Raid Attac e membro del Comitato internazionale per l’annullamento del debito del Terzo Mondo, Shamkhi ha parlato soprattutto degli interessi stranieri esercitati in Tunisia, della violazione della sovranità nazionale e della dipendenza che ne deriva.

La Tunisia storicamente ha esercitato un’attrazione geopolitica particolare tra le potenze europee, nonostante non sia certo un paese ricco di risorse energetiche.

Considerata come naturale estensione degli interessi italiani post-unitari, nel XIX secolo la Tunisia è precipitata nella sfera d’influenza francese non senza una buona dose di responsabilità britannica.

Londra percepiva la copiosa presenza italiana nel paese africano come una grave minaccia per i propri interessi marittimi mediterranei.

Di certo una Tunisia controllata da Roma avrebbe potuto influenzare la navigazione ben più di quanto avrebbe permesso la Francia, in quel momento interessata ad estendere i propri domini secondo un asse ovest-est (dal Marocco all’Egitto ed oltre).

La politica coloniale europea nei confronti della Tunisia ha dunque origini non certo recenti e, attraverso una fase di controllo diretto tra le due guerre mondiali, si è protratta nel contesto bipolare giungendo fino al recente passato.

In tale processo tanto il presidente Habib Bourghiba quanto, e in misura assai più rilevante ed efficace, il suo successore Ben ‘Ali hanno giocato il proprio ruolo. Il primo, filo-francese per indole e formazione culturale, era ostile al nasserismo ed al progetto di unità panaraba.

Il secondo fin dal 1987 fu un solido alleato dei paesi europei e degli Stati Uniti, tanto da meritare un posto d’onore nel novero dei cosiddetti regimi arabi “moderati” assieme al Re del Marocco, a quello di Giordania ed al Presidente egiziano Mubarak.

Come scriveva Richard Falk, inviato speciale dell’Onu per i diritti umani dei palestinesi, pressappoco nel gennaio scorso “mentre gli accademici si interrogano se attribuire alla Tunisia di Ben Ali il ruolo di guida della Primavera Araba per gli altri paesi, tutti sono concordi sul fatto che essa è stata il perfetto alleato degli Stati Uniti”.

Gli ingredienti necessari di questa special-relationship sono stati soprattutto tre: l’assetto neoliberista del sistema economico (oltremodo aperto agli investimenti stranieri), la piena disponibilità alla cooperazione nella lotta al terrorismo, e la strenua difesa del secolarismo e opposizione ferrea ai partiti e movimenti dotati di un’agenda islamica.

Le manifestazioni di piazza del 24 aprile hanno portato a galla il malcontento di quella parte della società tunisina che attribuisce proprio alle politiche neo-liberiste, al dominio dei mercati finanziari ed al mal controllato agganciamento del paese alle logiche della globalizzazione, il deteriorarsi della condizione economica nazionale.

I partiti e movimenti che hanno preso parte all’appuntamento gravitano attorno alla sinistra più o meno organizzata, con un numero significativo di collettivi studenteschi ufficiosi.

A ben vedere, al di là delle istanze anti-imperialiste, le richieste dei manifestanti sono state quasi del tutto prive di una connotazione politica in senso stretto: shughl, hurriyya, karramat wataniyya, cioè lavoro, libertà e dignità nazionale, è stato lo slogan maggiormente pronunciato.

Ma la situazione economica tunisina da un anno a questa parte, è davvero così drammatica?

Secondo i dati della CIA nel 2011 il PIL ammontava a 101,7 miliardi di dollari ed era pressoché stabile rispetto all’anno precedente ed anzi in rialzo rispetto al 2009 quando era attestato a 98,63 miliardi di dollari.

Lo stesso indice calcolato in PPP ammontava nell’anno passato a 9,500 dollari e non presentava sostanziali cambiamenti rispetto al 2009 ed al 2010.

Il vero problema è rappresentato dal tasso di crescita che è pari allo zero nel 2011 e del 3,1% nel biennio precedente e dal tasso di disoccupazione: su una forza lavoro di quasi quattro milioni di individui, il 16% era disoccupata.

Per avere un’idea, si confrontino tali dati con quelli di un’altra delle economie del mediterraneo particolarmente in crisi come quella greca (anche in questo caso i dati sono attinti dalla banca dati della CIA): nel 2011 il PIL ammontava a 308 miliardi di dollari e lo stesso dato in PPP ammontava a 27,600 miliardi.

Il tasso di crescita riportava il segno negativo, indice della recessione e si attestava a -6% nel 2011, -3,5% nel 2010 e -2,3% nel 2009. Dei quasi 5 milioni di lavoratori, il 17% si trovava in stato di disoccupazione, più cinque punti percentuali rispetto al 2010.

Tornando al caso tunisino, si deve considerare un altro dato e cioè il debito pubblico che pari al 51,8% ha impedito grandi spese statali con ciò che ne consegue sotto il profilo della tutela dei diritti sociali.

In ultimo, la bilancia commerciale registrava nel 2011 un indice negativo dal momento che le importazioni supervano di gran lunga le esportazioni (23,4 miliardi di dollari contro 17,86 miliardi) e nonostante le esportazioni avessero registrato un aumento di circa un miliardo di dollari tra il 2010 ed il 2011.

In effetti il debito estero al 31 dicembre 2011 era giunto a 25,27 miliardi di dollari e a ben 32 miliardi di dollari ammontavano nella stessa scansione temporale gli IDE ossia la mole di investimenti esteri che non contribuivano dunque all’arricchimento del paese. La Tunisia investiva all’estero in attività pari ad un valore di 310 milioni di dollari.

Tra gli investors più attivi troviamo alcuni paesi dell’UE: in testa la Francia e l’Italia che nel 2010 avevano investito circa 5 miliardi di dollari a testa nel settore turistico.

Negli anni precedenti anche Malta, la Spagna e il Belgio avevano instaurato relazioni economiche bilaterali di un certo volume d’affari.

Tra i paesi arabi è altamente significativo che nel 2010 la Libia da sola aveva investito 65,3 miliardi di dollari nel medesimo settore, cifra considerevolmente ridotta a seguito dell’operazione della Nato.

I rapporti economici e quelli legati ai programmi di sviluppo con gli Stati Uniti sono piuttosto sedimentati: l’agenzia USAID ha avviato una serie di progetti a partire dal 1994 quando il sistema economico del paese ha ricevuto una “promozione”, come si legge nel sito ufficiale dell’ente governativo americano.

Nel 2002 i prestiti concessi aumentarono dato che la Tunisia fu inserita nel contesto della Middle East Partnership Initiative (MEPI) il cui ufficio regionale due anni dopo fu proprio installato presso l’ambasciata americana a Tunisi.

A seguito della rivolta del 2011, l’assistenza del governo statunitense è aumentata a dismisura specie nel campo della preparazione delle elezioni ma anche nello stimolo dell’attività di impresa nel settore privato.

Nel frattempo ben tre accordi del valore di 8 milioni di dollari sono stati siglati il 22 aprile scorso a Washington tra il governo transitorio tunisino e la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo.

Il primo accordo è finalizzato alla creazione di fonti di reddito nella regione meridionale di Tatawin. Il secondo dovrebbe mirare ad integrare 3000 giovani disoccupati, ed il terzo è destinato a finanziare l’Osservatorio nazionale dei mercati pubblici, un’autorità indipendente di vigilanza e garanzia.

La manifestazione antimperialista del 24 aprile ha riproposto i temi che sono stati alla base della “rivoluzione dei gelsomini” con l’aggravante dettata dalla sensazione che i responsabili della crisi economica e politica non siano stati soltanto attori interni al paese.

Alcuni slogan hanno inneggiato alla lotta alla speculazione finanziaria, tema assai noto in tempo di recessione globale, alla fine delle guerre indotte e all’ingerenza della Nato in Nord Africa.

Un flyer firmato dall’Avanguardia araba degli studenti e dal Movimento Ba‘th di Tunisi identifica la lotta all’imperialismo con la lotta del popolo.

Questa lotta è diretta alle forme moderne del colonialismo ed alle minacce sioniste nell’area araba e deve possedere una matrice popolare.

Un altro volantino, questa volta del Partito comunista tunisino dei lavoratori, s’intitola “Il popolo vuole…”.

A partire dal sacrificio di Muhammad al-Bu‘aziz, il popolo ha celebrato la propria alba ed è riuscito a stabilire la giustizia sociale a dispetto del regime oppressivo in vigore.

Scettici riguardo al partito al-Nahda, i membri dell’Hizb al-‘Amal affermano di proseguire la lotta per la realizzazione degli scopi rivoluzionari, che sono essenzialmente l’espansione dell’occupazione ed il rispetto della dignità nazionale.

Tra le richieste immediate, un sussidio di 400 dinari agli operai e ai contadini, il calmieramento dei prezzi dei generi alimentari di prima necessità, espansione degli investimenti in opere che consentano di assorbire la disoccupazione, la lotta all’imperialismo, fonte di gravi minacce per il popolo tunisino e, in generale per la regione araba.

L’Unione dei Giovani comunisti tunisi lamenta gli scarsi risultati raggiunti a sei mesi di distanza dall’elezione della Assemblea costituente.

Anche la festa dei lavoratori del primo maggio ha offerto lo spunto per una lunga manifestazione protrattasi fino al pomeriggio.

Il corteo principale è stato guidato dal sindacato generale, l’Unione generale dei lavoratori tunisini che fino a pochi mesi fa costitutiva la principale forza sindacale del paese.

La nota più significativa è stata l’impronta decisamente avulsa da connotazioni politiche ma finalizzata soltanto a rivendicazioni di carattere sociale e, soprattutto, di unità nazionale: al-sha‘b yurid al-wahda al-wataniyya ovvero: “Il popolo vuole l’unità nazionale” era lo slogan più volte pronunciato.

Gli scioperi e le manifestazioni si susseguono senza sosta in questa fase della storia della Tunisia, e già il 2 maggio un nuovo sit-in, organizzato di operai nel governatorato di Sfax, ha conosciuto il ripetersi di fatti ben noti: uno dei manifestanti, il ventiduenne ‘Ali Sudani, si è dato fuoco dopo aver cosparso i propri abiti di benzina.

Il ministero degli Interni, gestito attualmente da ‘Ali Larayedh, è il luogo dinnanzi al quale si radunano i cortei: al-sha‘b yurid al-wazir al-dakhiliyya cioè il popolo vuole il Ministro degli Interni. Larayedh è uno dei principali dirigenti del partito al-Nahda.

Perseguitato sotto il precedente regime, ha trascorso dieci anni in isolamento ed ora si trova a capo di uno dei dicasteri di certo più spinosi, data la forte accusa da più parti del deteriorarsi delle condizioni di sicurezza nella fase successiva al crollo del vecchio regime.

Piuttosto che i problemi legati alla micro-criminalità, in occasione dei cortei è stata contestata al Ministro degli Interni una scarsa efficienza nel provvedere a situazioni contingenti: beni di prima necessità, trasporti, servizi primari e soprattutto lavoro.

Il nocciolo della questione è ancora una volta il dissesto dell’economia dal quale dipende la poca concretezza ed efficienza delle politiche adottate, per di più in un momento cruciale di transizione.

L’adozione di misure liberistiche e poco o per nulla protettive del sistema economico e dei lavoratori può rivelarsi pericolosa e, cosa ben peggiore, potrebbe alienare il supporto che al momento il sindacato pare abbia concesso alle forze politiche maggioritarie.

May 3, 2012

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