Tunisia. Ciò che può una rivolta…

La rivolta di queste ore sta svelando l’essenza di un “sistema-Tunisia”: da una parte la classe dominante, dall’altra la periferia dominata. E’ questa che si sta sollevando, come aveva già fatto molte altre volte in passato. Si sgola per imporsi, e si ribella alla sua condizione di dominazione. Il punto di vista di “Nawaat”.

La grande mobilitazione di protesta di questi ultimi giorni, colma di speranze, trasformazioni sociali e del dolore inflitto dalla crudeltà di una storia iniqua, sembra dare modo di sollevare un interrogativo che s’impone, mentre viene messa in atto una risposta repressiva secondo l’antico precetto dello Stato-poliziotto. D’altra parte, il sottoproletariato si agita facendo scoppiare caos senza freni.

Si instaura un clima di paura generalizzato, coronato con la disposizione – tanto sciocca quanto poveri di spirito sono i suoi ideatori – di decretare un coprifuoco ansiogeno, che accorcia ciò che rimane di queste già disincantate giornate invernali.

E poi, ancora, il bel circo mediatico ci martella il cervello con le sue sciocchezze eterne, assicurando a perfezione la sua funzione di propaganda al potere politico-affarista sostenuto da un apparato repressivo-poliziesco che si sfrega le mani. Non per il freddo, ma perché si prepara a cancellare ciò che resta dell’homo sapiens.

Un’intera antologia di racconti contraddittori che ha per oggetto la rivolta e i suoi attori, sta già instaurando un clima di dubbio e discredito verso la mobilitazione agli occhi della popolazione.

Diventa dunque chiaro a partire da questo momento che la rivolta si trova stretta tra due fuochi. Un branco di nemici la sorveglia per accerchiarla e farla fallire. Il la retorica ufficiale si è ripromessa di de-politicizzare la mobilitazione sviluppando una sua narrazione – che per altro manca terribilmente d’immaginazione – al fine di discreditare gli attori della rivolta.

Pertanto, diventa necessario riflettere sulle possibilità di successo di un sollevamento che in tanti s’impegnano anima e corpo a far deragliare.

Le linee di divisione che implicano la mobilitazione, gli antagonismi e i campi di lotta nei quali s’inserisce, richiedono qualche riflessione che aiuti a capire meglio i problemi e a chiarire le prospettive strategiche del movimento.

Prima di tutto, è necessario proteggere la rivolta dei tentativi di de-politicizzazione che il discorso politico ufficiale si sforza di mettere in atto, insieme ai suoi docili servitori mediatici. Confinando l’onda protestataria in una dimensione puramente rivendicativa, il discorso politico-mediatico dominante tenta di limitarne il significato reale, eludendo le sfide politiche che il movimento pone.

Riconoscere la “legittimità” delle rivendicazioni economiche e sociali non è quasi mai sufficiente a rendere manifesta la componente politica della contestazione. Bisogna inserirla in uno schema di lotte politiche intense e permanenti, a volte di violenza estrema, tra gruppi sociali dominati e dominanti.

Pertanto, il sollevamento è percepito – e si percepisce lui stesso – come un episodio di una lotta di classe che è sempre esistita. I dominanti hanno paura di riconoscere questa realtà, perché riconoscerne l’esistenza rivela l’esistenza stessa della lotta.

Comprendere la mobilitazione in questo modo, prendere atto del suo inquadramento in un contesto di lotte politiche tra forze sociali antagoniste, battersi contro i tentativi di de-politicizzazione che vogliono negare la lotta di classe, significa superare le rappresentazioni di quei corpi sociali che vogliono circoscrivere la mobilitazione in una dimensione puramente rivendicativa, rappresentando i manifestanti con l’immagine caricaturale di poveri disoccupati in cerca di lavoro.

Questo presuppone anche una definizione precisa dell’identità di classe degli attori della mobilitazione, con tutto ciò che implica a livello di alleanze tra categorie sociali in lotta tra loro.

Costruire legami forti tra gli strati sociali interessati dalla lotta, tra i salariati della classe media e i diplomati-disoccupati, dovrebbe passare per un’alleanza strategica che si traduca a livello di organizzazioni rappresentative di queste categorie sociali nella societa civile (UDC, FTDES, più in generale tutte le organizzazioni a vocazione sociale che si sono sviluppate nelle regioni svantaggiate della Tunisia, ed eventualmente i gabinetti regionali dell’UGTT, dato che il posizionamento dell’organizzazione sulle rivolte è stato finora ambiguo).

La mobilitazione dovrebbe anche conquistare altri strati della società civile, cercando di attirare sempre più organizzazioni di differenti ambiti, quelle che si occupano della difesa dei diritti umani in particolare.

Bisogna ricercare l’effetto “palla di neve”, allo scopo di formare una costellazione di gruppi sociali che prendano parte alla mobilitazione. Costituendo una sorta di blocco storico potenziale che si concentrerebbe intorno alle regioni dominate, questa alleanza escluderebbe de facto le pericolose agitazioni del sottoproletariato (probabilmente istigato dalle organizzazioni criminali organizzate), e prenderebbe in contropiede i tentativi di strumentalizzazione che i gruppuscoli fascisti reazionari armati hanno già messo in atto. E che si sfregano già le mani per spogliare la rivolta della sua essenza, indirizzandola verso i loro funesti progetti.

Inoltre, il campo delle lotte nel quale si evolve la rivolta impone una strategia efficace di risposta contro le rappresentazioni veicolate dal discorso pseudo-scientifico che infesta insolentemente la programmazione televisiva da quattro soldi.

Le povere analisi di certi opinionisti invitati in tv, mediocri personaggi presentati come specialisti di tutto e di niente, rivelano una strategia retorica che devia dai problemi reali nei quali si inserisce la rivolta. Pertanto, diventa urgente sviluppare – e si tratta di un obiettivo di lungo periodo – una conoscenza scientifica delle fratture socio-territoriali in Tunisia.

La produzione di un sapere alternativo alle sciocchezze pseudo-scientifiche ha la finalità di armare il movimento contestatario in modo da contrattaccare il discorso degli “ingegneri sociali” che distorcono le coscienze sulla realtà delle lotte che si stanno consumando.

Una conoscenza che necessita il coinvolgimento di diversi campi di ricerca, con un approccio multi-disciplinare, scomodando anche la storia e la geografia oltre alla sociologia e la scienza economica. La rivolta si doterebbe così di basi di un sapere condiviso, attraverso una ricerca scientifica che abbia per oggetto i meccanismi di dominazione e la loro riproduzione nella società tunisina, preparando il terreno alla costruzione di un patrimonio comune che potrebbe essere usato nelle lotte politiche future.

A questi temi contenutistici di accostano poi quelli della diffusione di questo sapere, dei canali di diffusione appropriati, che permettano di rinforzare la conoscenza e dargli una voce potente. In ogni caso, questi temi meritano un’analisi sulla base di una strategia del sapere che i gruppi sociali attivi all’interno della mobilitazione dovrebbero elaborare insieme a quegli intellettuali che vogliano impegnarsi in questo senso (per quanto pochi e minoritari siano).

La questione della memoria è altrettanto centrale nella lotta. Una strategia della memoria dai contorni ben definiti dovrebbe rinforzare il movimento sociale, con l’obiettivo di costruire un continuum tra i diversi episodi di lotta cui hanno dato vita i gruppi dominati.

Mantenere vivo il ricordo della repressione poliziesca della mobilitazione del 17 dicembre; ricordare incessantemente la sofferenza subita dai militanti nelle gattabuie dei poliziotti, e la continua battaglia contro l’oblio delle lotte sociali per la costruzione di una memoria identitaria della rivolta e dei suoi protagonisti.

La mobilitazione protestataria è l’espressione episodica di un divenire storico-sociale in gestazione, che si presenta come il frutto di certi rapporti di dominazione che disegnano il ritratto di un “sistema-Tunisia” simile a quello del “sistema-Mondo”.

Da una parte, un nucleo centrale dominante, a livello economico, sociale ma anche di narrazione e rappresentazione, narcisista e arrogante fino al midollo, che si rifiuta di parlare d’altro se non di se stesso.

Dall’altra una periferia dominata, saccheggiata, stigmatizzata ed esiliata nel limbo del discorso politico. Ed è questa che si sta sollevando, come aveva già fatto molte altre volte in passato. Che si sgola per imporsi e si ribella alla sua condizione di dominazione.

Questo articolo è stato scritto per riflettere sulle condizioni di emancipazione di questa periferia, dominata da tempo immemore. Non ha la pretesa di proporre soluzioni, ma quella di avviare una riflessione che permetta di superare i fallimentidelle lotte precedenti.

La rivolta dovrà dunque essere pensata – e pensarsi, anche – intorno a questi assi. Guadagnare terreno concependosi come già facente parte di un grande disegno di lotte politiche, e operando la sua propria definizione guardandosi dai nemici, e dotandosi di un’identità di classe e di una memoria condivisa, sviluppando una storicità propria e incoraggiando la produzione di una conoscenza scientifica di cui si armerà per condurre le lotte future, con maggiore consapevolezza.

Queste linee possono essere forse discutibili. L’essenziale, è che il potenziale del movimento sociale non sia sbocciato in assenza di una riflessione globale su ciò che può una rivolta.

*Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Nawaat, ed è disponibile qui. La traduzione dal francese è a cura di Cecilia Dalla Negra.

February 01, 2016di: Mohamed Slim Ben Youssef per Nawaat*Tunisia,

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