Palestina. L’Intifada e il suo significato

In una situazione di totale assenza di un quadro politico di riferimento, ai palestinesi non resta che continuare a dimostrare il proprio rifiuto dell’occupazione e della colonizzazione. Che sia un’Intifada o meno.

La situazione a Gerusalemme Est e in Cisgiordania sembra ormai aver raggiunto un punto di rottura. Nonostante gli scontri a cui stiamo assistendo siano in continuità con quanto accaduto quasi quotidianamente in Palestina negli ultimi dieci anni, la parola Intifada è ormai sulla bocca di molti analisti.

Nel ritrovare l’attenzione dei media internazionali, l’intensificazione del conflitto tra occupanti e occupati viene contestualmente descritto come un potenziale terzo sollevamento di massa della popolazione palestinese.

Com’era difficile nel dicembre del 1987 e nel settembre del 2000 prevedere la durata, l’evoluzione e le dimensioni della rivolta, così oggi è tutt’altro che semplice comprendere con chiarezza quali saranno gli sviluppi di questo nuovo turno di scontri.

Aldilà quindi di decretare se quanto sta accadendo rappresenti o meno una terza Intifada, è più utile soffermarsi su due considerazioni di fondo che possono fare chiarezza sulla stato attuale delle cose in Palestina/Israele.

In primis, è necessario porre l’attenzione su quale idea, quale immaginario viene trasmesso nel momento in cui i media fanno esplicito riferimento alla prima e alla seconda Intifada e verificare se questo corrisponda con la realtà storica dei due periodi in questione.

Una volta fatta luce su questo, è altrettanto utile soffermarsi su almeno un aspetto che caratterizza l’attuale momento storico e politico.

Senza discutere le enormi differenze esistenti tra la prima e la seconda Intifada, e a costo di fare qualche generalizzazione, è possibile affermare che entrambe le rivolte si sono contraddistinte per essersi “istituzionalizzate come una sfida organizzata e quasi unanime alla presenza israeliana nei territori [palestinesi occupati]” (1).

In entrambi i casi dunque, l’obiettivo principale era la fine del regime di occupazione militare vigente in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza a partire dal giugno 1967. Anche oggi la questione di fondo rimane la stessa, il ché sottolinea la natura preminentemente politica dello scontro.

Questo però contrasta con la narrativa molto diffusa che gli scontri abbiano una matrice religiosa. Tale lettura è sostenuta dal ruolo che il problema dell’accesso al Haram Al-Sharif sta giocando nell’acutizzarsi delle tensioni.

A questa interpretazione degli eventi, si accompagna un racconto dei fatti che enfatizza la minaccia all’ordine pubblico e geopolitico posta da una potenziale terza Intifada.

Si pone cioè l’accento sul deterioramento della sicurezza in Palestina/Israele, occorso anche durante le due precedenti rivolte,incorrendo così nel rischio di porre quanto accade sullo stesso livello delle altre crisi che stanno sconvolgendo il Vicino Oriente, restituendo ancora una volta l’immagine di una regione destinata ad un eterno e irrisolvibile caos politico.

Tuttavia, come è il caso per ognuna delle crisi a cui assistiamo, anche per quanto riguarda la questione Israelo-Palestinese sussistono delle motivazioni di fondo, che nel caso specifico e attuale corrispondono all’occupazione militare, al regime di apartheid esistente nei Territori Palestinesi Occupati e al fallimento di qualunque tentativo di risoluzione basato sul negoziato.

Chiarito quindi che ciò a cui i palestinesi si stanno ribellando è l’occupazione e la colonizzazione dei propri territori, ci si può concentrare su quello che, politicamente, caratterizza l’attuale momento storico e lo differenzia rispetto ai due principali termini di paragone.

In entrambi i casi infatti, ma in special modo durante la prima Intifada, i palestinesi potevano fare affidamento su una o più forti leadership politiche. Se si prende in esame la rivolta del 1987 ad esempio, l’OLP e il suo organo nei Territori Occupati, la Leadership Unificata della Rivolta, rimasero in pieno controllo della protesta per un periodo prolungato, coordinandone le varie azioni come marce, scioperi e campagne di boicottaggio dei prodotti israeliani.

Inoltre portando avanti l’esempio, durante la prima intifada, e in una certa misura anche durante la seconda, la leadership dell’OLP nella persona di Yasser Arafat mirava ad ottenere un risultato politico preciso, ovvero costringere Israele a negoziare un accordo risolutivo.

La situazione oggi appare radicalmente diversa. Nonostante forti spaccature siano sempre esistite all’interno dello scenario politico palestinese, mai queste hanno compromesso l’azione politica e di resistenza come a partire dal 2007 e dalla divisione tra Gaza e Cisgiordania, tra Hamas e Autorità Nazionale Palestinese (ANP).

Mai come in questo momento si è assistito a un tale grado di collaborazione tra Esercito Israeliano e Forze di Sicurezza dell’ANP nel prevenire ogni manifestazione di resistenza all’occupazione. Infine mai come in questo momento, si è assistito ad una così profonda impasse politico-diplomatica dove la cosiddetta “soluzione dei due Stati” appare del tutto irrealizzabile così come qualsiasi tipo di negoziato tra il governo israeliano più a destra nella storia e i delegittimati rappresentanti dell’ANP.

In questo contesto, l’invito alla formazione di una nuova leadership unificata della rivolta da parte di forze come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) appare un mero esercizio retorico, come anche le promesse di vendetta di fazioni quali Hamas o il Jihad Islamico, anche qualora queste ultime facciano seguire l’azione alle parole.

In conclusione, la popolazione palestinese vive, affianco del più evidente dramma dell’occupazione militare, il dramma della totale assenza di un quadro politico di riferimento.

In una situazione in cui le principali fazioni palestinesi sembrano aver esaurito il proprio spirito d’iniziativa e la propria legittimità, i palestinesi meriterebbero di poter esprimere una leadership alternativa in grado di rappresentarli e di riformulare i loro principali obiettivi politici.

A questo dovrebbero prestare attenzione tutti coloro che in Europa e negli Stati Uniti auspicano, almeno a parole, una risoluzione di questa situazione.

Per il momento, Intifada o no, ai palestinesi non resta che continuare a dimostrare il proprio rifiuto dell’occupazione e della colonizzazione.

1) Helena Cobban, “The PLO and the ‘Intifada,’” The Middle East Journal, 44 (1990), 207–33 (p. 208).

*Saverio Leopardi è dottorando in Studi sul Medio Oriente all’Università di Edimburgo. La foto pubblicata è di Issam al-Rimawi, che ringraziamo per la gentile concessione.

October 13, 2015di: Saverio Leopardi*Israele,Palestina,

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