Palestina. La generazione dei ribelli scomodi

Mentre gli analisti si dividono per capire se ciò che sta accadendo in Palestina sia una Terza Intifada, una nuova generazione scende in piazza. Con una rabbia che ha sempre covato sotto la superficie, aspettando di erompere da un momento all’altro. La questione è sempre e solo stata “quando”. L’analisi di Budour Hassan.

Nel 1995, quando Samar rimase incinta del suo quinto figlio, i dottori sospettavano che il feto sarebbe cresciuto con alcune malformazioni, e non sarebbe sopravvissuto. Samar, suo marito Ibrahim e i loro altri 4 figli si erano appena stabiliti nel campo rifugiati di Shu’fat, nei sobborghi della Gerusalemme occupata, insieme alla madre di Samar, Nawal, che si prendeva cura di lei.

Samar ha dato alla luce un bambino perfettamente sano, che ha chiamato Subhi, come il nonno materno, un combattente dell’OLP durante gli anni 70 ed ex prigioniero politico nelle carceri israeliane. Le stesse in cui è stato imprigionato anche Ibrahim, il suo giovane padre, durante la prima Intifada. E come due dei giovani fratelli del piccolo Subhi, che hanno passato in prigione circa un anno ognuno.

Quando Subhi aveva circa 7 anni, capitava spesso di vederlo tirare pietre contro i soldati delle forze di Occupazione che arrivavano per i loro raid all’interno del campo per arrestare persone.

Bassel al-Araj, uno dei farmacisti del campo all’epoca, ricorda che il piccolo una volta aveva raccolto alcune pietre proprio fuori dalla sua farmacia, le aveva lanciate ai soldati, e poi si era rifugiato nel negozio nascondendosi dietro il bancone. Aveva ripetuto spesso questo trucco in seguito, lasciando i soldati a chiedersi da dove arrivassero le pietre. Subhi era stato allevato da due nonni ribelli che erano stati espulsi dalle loro case ad al-Lydd durante la Nakba del 1948, e non aveva paura delle intimidazioni dell’Esercito israeliano, ne’ di essere arrestato, nonostante la sua giovane età.

L’8 ottobre 2015 l’ormai diciannovenne Subhi Abu Khalifa è stato ferito da un colono israeliano a Gerusalemme. Una foto del suo arresto ha fatto il giro dei social network.

In quella foto, Subhi sorrideva.

Subhi Abu Khalifa si è unito alla lunga lista di teenager palestinesi che hanno adottato la tattica di attacco del “lupo solitario”. Già utilizzata nell’ottobre e nel novembre di un anno fa, è diventata oggi un simbolo della nuova ondata di rivolta palestinese contro l’Occupazione israeliana.

Mentre i commentatori ancora una volta discutono sulla probabilità di una Terza Intifada in Palestina, una nuova generazione di giovani palestinesi a Gerusalemme e in Cisgiordania è venuta alla luce, sfidando l’oppressivo status quo creato dagli Accordi di Oslo, consolidato dall’Occupazione israeliana e protetto dall’Autorità Palestinese e dalla sua élite neo-liberista.

Un’élite che vede questi giovani come una moltitudine di spericolate teste calde e irrazionali piantagrane.

Mentre i più prominenti attivisti palestinesi negli anni sono stati addomesticati dalla mentalità da Ong e dall’ossessione di essere raffigurati come nonviolenti, questa nuova generazione non è stata comprata dal mito della crescita economica e dello sviluppo.

I tentativi di addolcire la pillola da parte del sindaco israeliano della Municipalità di Gerusalemme, Nir Barkat, che ha regolarmente fatto visita ai quartieri palestinesi, creando centri per la comunità e promettendo crescita economica, non sono serviti a pacificare a rabbia dei giovani palestinesi. E anche se Barkat ha fatto di tutto per promuovere l’immagine di una Gerusalemme perfetta destinazione turistica grazie alla sovranità sionista, luogo di tolleranza religiosa, stabilità e diversità, la giovane classe operaia palestinese della città gli ha guastato i piani.

Ad uno sguardo di superficie, l’ultima ondata di rabbia che è partita da Gerusalemme per espandersi in Cisgiordania, Gaza e fin dentro i territori occupati nel 1948, potrebbe sembrare provocata dalla continua invasione da parte dei coloni, protetti dall’esercito, della moschea di Al-Aqsa.

Ma ridurre questa rivolta ad una disputa religiosa che finirà con il finire delle festività religiose ebraiche è perfettamente coerente con la propaganda israeliana.

Sebbene la difesa della moschea sia stato uno dei principali vettori ideologici dei disordini, la rivolta dei giovani ha radici molto più profonde, che sono state offuscate da una ingannevole e apparente immagine di calma.

E’ una rabbia, la loro, che ha sempre covato sotto la superficie, aspettando di erompere da un momento all’altro. La questione è sempre e solo stata “quando”.

Se questa agitazione si svilupperà in una Terza Intifada resta da vedere. Quel che è certo, è che questa rivolta – già diventata un movimento sociale diffuso per diverse ragioni – è parte dell’apice che inevitabilmente si doveva toccare, che porterà ad un cambiamento sostanziale, e che ha già modificato il bilanciamento di potere delle forze in campo.

Israele, pur con tutto il suo apparato militare, è stato scosso dai recenti attacchi dei “lupi solitari”. Le telecamere adesso mostrano Barkat – che non molto tempo fa si vantava della stabilità e della sicurezza di Gerusalemme sotto la sua leadership – portare una pistola e mostrare evidenti segni di tensione e stress mentre cammina per la Città vecchia.

L’establishment politico e di sicurezza israeliano ci sta mettendo molto a fermare questa ondata. Ufficiali di alto grado hanno fatto appello agli ebrei israeliani perché si armino. Le risposte letali al lancio di razzi da parte palestinese non sono nuove, e ora sono ufficialmente messe in atto dallo Stato senza alcuna remora.

Il governo israeliano sta portando avanti demolizioni punitive di case contro i palestinesi sospettati o coinvolti in questi attacchi solitari. E la polizia israeliana, con il pieno sostegno dello Stato e dell’opinione pubblica, sta compiendo esecuzioni sommarie di giovani palestinesi per le strade. Tutte le componenti dello spettro politico israeliano, dalla destra alla “sinistra”, si sono affettate a “consigliare” al governo come gestire questa crisi.

In una situazione in cui la disparità di forze è così chiara, non si può sottostimare il significato di questa ondata di rivolta e l’impatto che sta avendo. In assenza di proteste di massa “convenzionali” ed organizzate, gli attacchi individuali stanno dettando il tono della rivolta e degli scontri, e la loro portata si rivela essere più vasta che non quella di semplici attacchi.

La decisione israeliana di rispondere con punizioni collettive brutali potrebbe avere però un effetto boomerang. Per il momento, ha aumentato il senso di solidarietà comune e mutuale tra palestinesi, invece di provocare una condanna per le azioni di questi ragazzi.

Quando le forze israeliane hanno compiuto raid a Shu’fat, questo giovedì, cercando la casa di Subhi Abu Khalifa, sono stati accolti da una resistenza di massa in tutto il campo. “Giovani donne dal volto coperto tiravano pietre contro i check point”, ha raccontato la madre.

Dopo l’attacco compiuto da suo figlio, il padre, che lavorava come netturbino per la municipalità occupante, è stato licenziato. Quando gli è stato chiesto se è dispiaciuto per le azioni di Subhi, ha risposto che non baratterebbe mai il valore del suo lavoro con la sua dignità.

Sicuramente ci saranno voci tra i palestinesi di Gerusalemme che, spinte dalla paura delle rappresaglie israeliane, condanneranno gli attacchi e inviteranno alla calma. Tuttavia la grande maggioranza dei palestinesi sostiene la rivolta anche se non partecipa.

Senza una leadership e in maniera quasi spontanea, le comunità palestinesi si stanno organizzando per respingere i raid e gli attacchi dell’esercito israeliano e dei coloni a Nablus e Hebron, mentre le forze di sicurezza dell’ANP restano a guardare, senza fare niente per proteggerle.

Per sconfiggere la massiccia repressione di Israele e la complicità dell’ANP, i palestinesi dovranno organizzarsi ed espandere le loro reti di solidarietà e di supporto orizzontale. Questo almeno potrebbe trasformarsi in un movimento sociale, nell’attesa di una Terza Intifada.

Chiamateli come volete, ma le giovani “teste calde” che stanno guidando l’ondata di rivolta sono consapevoli che i coltelli e le pietre non possono liberare la Palestina. Ma sanno anche che la liberazione non arriverà attraverso inutili colloqui di pace, dato che sino ad oggi hanno prodotto solo più colonizzazione e più crimini israeliani. Le prove sono evidenti a tutti.

Nonostante la loro età e inesperienza, quei giovani hanno molta più maturità e coraggio dell’élite palestinese che ha beneficiato dello status quo e dei più anziani che cercano di placarli. Quei giovani hanno vissuto gli effetti disastrosi degli Accordi di Oslo e del fallimento dei negoziati di pace. Sono vittime del neo-liberismo dilagante nella società palestinese e delle sue molteplici manifestazioni.

Per quei ragazzi la libertà e la dignità hanno molta più importanza della civiltà e della rispettabilità. Hanno oltrepassato i confini e le barriere che a lungo hanno separato la Palestina, mostrando che la Linea Verde è solo una farsa.

Sono loro che stanno mettendo le loro vite in prima linea, mentre gli attivisti di spicco e l’élite palestinese sono rimasti indietro, guardandoli da lontano.

Budour Hassan è una blogger e analista palestinese. La versione originale dell’articolo è disponibile qui. La traduzione in italiano è a cura di Cecilia Dalla Negra.

October 19, 2015di: Budour Hassan*Israele,Palestina,

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