#Medina: gita a Tripoli con Elias Khoury

Il Libano è Beirut, verrebbe da dire. E no, è anche Tripoli! Tripoli, quella città così prossima alla Siria, tanto che oggi mostra alcuni sintomi da contagio, sempre un po’ ai margini quando si parla di Libano, perché Beirut si prende tutto, ha invece una cittadinanza letteraria degna di rispetto.

Mi viene in mente il breve, affettuoso romanzo di Khaled Zyade Venerdì, domenica (1), o lo sfondo tripolino che spesso incontriamo nelle storie di Jabbour Douaihy (2).

Per #Medina ho scelto di proporre una passeggiata tra i vicoli della città vecchia assieme a Karim Shammas, il protagonista di Specchi rotti, o meglio Sinalcol, l’ultimo romanzo di Elias Khoury, che passando da Beirut raggiunge Tripoli per mettere un punto, una volta per tutte, al discorso sul Libano e la guerra civile.

Spero che per molti, che come me hanno visto Tripoli solo di passaggio su un autobus, imbattendosi al massimo nella gigante scritta “Allah”, dall’aspetto un po’ sinistro, piantata in mezzo alla rotonda sulla strada per Beirut, queste pagine siano un invito a dedicare, la prossima volta, un po’ più di interesse e curiosità a questa città niente affatto scevra di bellezze, storie e sorprese.

Karim gli ha fatto notare che era già stato alla cittadella moltissime volte, che non aveva bisogno di tornarci, e che doveva assolutamente rientrare a Beirut. Ma Abu Ahmad insisteva: “Ci vorranno solo un paio d’ore. Le mostrerò le tombe e poi scenderemo fino al quartiere Mhatara, così le faccio vedere la Tripoli mamelucca, un capolavoro architettonico, mi creda. Tutti la chiamano Tripoli Vecchia, ma è sbagliato. La città vecchia è sul porto, è lì che stavano i Banu ‘Ammar prima e i crociati poi. E per finire andiamo a mangiarci un bel ful da ‘Ukr prima che l’accompagni in piazza Tall”.

“Per carità, non parli di cibo, la prego,” ha biascicato Karim massaggiandosi lo stomaco dolorante.

Abu Ahmad sarebbe stato di parola, la visita alla cittadella di Saint-Gilles non sarebbe durata più di due ore. Sarebbero saliti alle sette e alle nove e un quarto si sarebbero salutati con un abbraccio davanti alla stazione dei taxi collettivi per Beirut.

Solo che Abu Ahmad non avrebbe fatto che parlare, perfino mentre mangiava, sarebbe riuscito a parlare perfino masticando fave. Discorsi pieni di risonanze, pieni di Storia. Ha parlato della genialità di Raymond de Saint-Gilles, che aveva fatto costruire la cittadella per dare fiato alla città, caso più unico che raro ai suoi tempi, in cui, di norma, si costruivano roccaforti per difesa mentre questa qui, al contrario, era concepita per l’attacco.

Ha parlato dei mausolei e delle prigioni costruite dagli Ottomani, gli ha mostrato la chiesa riconvertita in moschea dai Mamelucchi. Della cittadella conosceva centimetro per centimetro perché lui, lì, ci era nato, sapeva come mai i crociati ci avevano costruito tutt’intorno l’unico e solo quartiere residenziale.

Ha raccontato che Tripoli era sul porto e che i soldati avevano costruito il quartiere di Mahatra per la loro servitù: “Non bisogna mai credere a chi abita in questa zona e sostiene di avere origini crociate. Sono solo discendenti dei servi arabi o turcomanni, e se hanno sangue crociato nelle vene è solo per via dello ius primae noctis. Noi Daguiz siamo l’unica famiglia crociata di tutta Tripoli. Dopo il massacro, siamo scappati nei campi e abbiamo vissuto a Bahsas prima di tornare al porto. Ci siamo rifiutati di venire a vivere nella città mamelucca perché altro non era che un’estensione del quartiere della servitù”.

Ha raccontato che il restauro del Khan al-Kayyatin, il caravanserraglio dei Sarti, e del Suq al-Haraj nel Suq al-Bazarkan – in parte eseguito dai tedeschi e poi portato a termine dall’architetto libanese Jad Tabet – aveva restituito alla città mamelucca tutto il suo splendore, peccato che i tripolini non l’amino particolarmente, la loro città.

Secondo lui, niente era più bello della moschea costruita da ‘Abd al-Wahid al-Maknasi nel 1305 sui resti di un caravanserraglio franco, oppure della Madrasa ‘Ajamiyya, fondata nel 1365: “Una città stupenda. Tutti i suoi quartieri, non solo Mahatra, testimoniano delle bellezze dell’architettura mamelucca, soprattutto la Grande Moschea al-‘Umari”.

Hanno fatto colazione in un caffè nel Suq al-Haraj e poi hanno proseguito la passeggiata nella città vecchia, dove erano iniziati i restauri delle pareti bianche che andavano sgretolandosi. Sono entrati nella moschea Taynal e nel cimitero al-Ramal. Abu Ahmad è andato dritto verso una tomba ben precisa e ha preso dell’acqua per poterla lavare mentre Karim cercava inutilmente la tomba di Khalid.

“La ringrazio della bella gita,” ha detto Karim al momento di salutarsi.

* Estratto da: Elias Khoury, Specchi rotti, traduzione di Elisabetta Bartuli, Feltrinelli 2014, pp. 410-411.

(1) Khaled Zyade, Venerdì, domenica, traduzione di Concetta Ferial Barresi, Jouvence 1996.

(2) Jabbour Douaihy, Pioggia di giugno, traduzione di Elisabetta Bartuli, Feltrinelli 2010; Jabbour Douaihy, San Giorgio guardava altrove, traduzione di Elisabetta Bartuli, Feltrinelli 2012.

March 30, 2014di: Giacomo Longhi*Libano,Articoli Correlati:

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