La pena di morte nel mondo. Il rapporto 2012 di Amnesty International

Nonostante gli “sviluppi positivi” e la tendenza globale all’abolizione della pena di morte, il suo utilizzo nei paesi del Medio Oriente continua ad essere “motivo di grande preoccupazione” per Amnesty International. Che pubblica il suo rapporto annuale relativo al 2012.

Fuad Ahmed Ali Abdulla, ucciso il 18 gennaio 2012 nel carcere di Ta’izz, in Yemen, dopo essere stato condannato per un presunto omicidio avvenuto nel 2004, quando era minorenne.

Abid Hamid Mahmoud, impiccato il 7 giugno in Iraq per avere partecipato alla repressione degli attivisti dell’opposizione durante la dittatura di Saddam Hussein.

Saeed Sedeghi, messo a morte dalle autorità iraniane il 22 ottobre per il possesso di 512 chili di metanfetamine.

Sono gli epitaffi di alcuni dei condannati a morte nei paesi mediorientali, dove le esecuzioni capitali continuano ad essere motivo di grande preoccupazione, come sottolinea il rapporto 2012 sulla pena di morte, pubblicato da Amnesty International il 10 aprile.

Tre quarti delle esecuzioni portate a termine in tutto il mondo, infatti, sono state registrate solo in Arabia Saudita, Iran e Iraq.

In questi tre paesi e nello Yemen i livelli di esecuzione restano molto alti, in controtendenza rispetto alla propensione globale verso la sua abolizione, evidenziata nello studio dell’organizzazione internazionale.

I dati del 2012 confermano che 21 paesi in tutto il mondo hanno eseguito condanne a morte, uno su dieci. E se anche le esecuzioni di cui è venuta a conoscenza Amnesty nell’arco dello scorso anno sono state 682, due in più rispetto al 2011 (senza però contare la Cina, dove non è possibile reperire dati), le sentenze capitali sono state 1.722 in 58 paesi: un lieve miglioramento rispetto alle 1.923 (in 63 paesi) dell’anno precedente.

Il ricorso alla pena di morte continua a essere uno “strumento di repressione, di deterrenza e di punizione nell’area mediorientale”, che – primo posto a parte, riservato come ogni anno alla Cina – nella classifica globale occupa il podio.

Il secondo paese nell’ordine è l’Iran, con 314 esecuzioni, seguito dall’Iraq che ha registrato un aumento allarmante del ricorso a questa misura, con 129 condanne eseguite contro le 68 del 2011.

Al terzo posto compare poi l’Arabia Saudita con 79 esecuzioni, seguita dagli Stati Uniti (43). Si torna quindi allo Yemen, dove sono state uccise 28 persone.

Il 99% delle condanne eseguite nella regione ha dunque avuto luogo in Iraq, Iran Arabia Saudita e Yemen.

In questi paesi – come pure in Libano, in Egitto, in Cisgiordania, a Gaza, in Algeria e in Tunisia – molte condanne a morte sono state inflitte da tribunali speciali e militari, che operano al di fuori degli standard internazionali, conducono processi iniqui e spesso usano come prove confessioni estorte con metodi coercitivi o con vere e proprie torture.

In Iraq per esempio, Habhan Adel Hamdi, Mu’ad Muhammad ‘Abed, ‘Amer Ahmad Kassar e Shakir Mahmoud ‘Anad sono stati condannati a morte il 3 dicembre ad Anbar, nell’ovest del paese, con l’accusa di far parte di un gruppo armato e di avere compiuto crimini legati al terrorismo.

Durante il processo che li ha visti protagonisti, i quattro uomini hanno denunciato di essere stati obbligati a confessare i loro reati sotto tortura, come confermato anche da alcune visite mediche.

Le confessioni, usate contro di loro in tribunale, erano state anche trasmesse dal canale televisivo al-Anbar. La Corte penale, però, non ha avviato alcuna indagine.

La diffusione televisiva delle confessioni forzate prima del processo, in violazione del diritto alla presunzione di innocenza dell’imputato, si è verificata anche in Iran, dove il 6 agosto il canale di Stato IRTV1 ha mostrato le dichiarazioni di Mazyar Ebrahimi, fondatore di una società di filmografia con sede in Iraq, e di altre undici persone, uomini e donne, arrestate con lui e accusate di essere coinvolte nell’omicidio di cinque tra docenti e scienziati nucleari iraniani.

Tutti rischiano la pena di morte.

A destare preoccupazione è poi il fatto che in molti paesi mediorientali la pena capitale sia imposta per reati considerati non gravi dal diritto internazionale, come quelli connessi al traffico di droga o all’appartenenza politica.

In Iran, ad esempio, si può essere condannati a morte per adulterio, sodomia e per reati religiosi come l’apostasia e il “moharebeh”, l’inimicizia verso dio.

In Yemen sono considerati reati capitali i rapporti extraconiugali consensuali, eterosessuali e omosessuali, così come entrare in contatto con paesi stranieri. A gennaio scorso sono stati messi a morte Shaikh Khalid Nahshai e Abduh Muhammad Hahshal, per la loro appartenenza al partito di opposizione Islah. Negli Emirati Arabi Uniti delle 22 condanne a morte, sei sono state per traffico di droga e altre per omicidio e stupro.

In Arabia Saudita, dove le esecuzioni avvengono per decapitazione con una spada e spesso si svolgono in pubblico, dei 79 condannati a morte 29 avevano commesso reati che non avevano provocato vittime.

Tra questi risultavano l’adulterio, la rapina a mano armata, il furto nelle abitazioni, l’appartenenza a bande criminali, la stregoneria e la magia.

Il quadro però non è del tutto nero.

Il rapporto di Amnesty rileva infatti che il numero totale delle sentenze capitali emesse in Medio Oriente è sceso a 505 nel 2012, un calo considerevole in confronto alle 750 dell’anno precedente.

Dati che, però, non tengono conto della Siria, dove non è stato possibile reperire informazioni a causa del conflitto tra il regime di Bashar al-Assad e le forze di opposizione.

Il numero dei paesi della regione dove le sentenze sono state emesse è rimasto più o meno invariato: 16 nel 2012 e 15 nel 2011.

Una tendenza costante verso la diminuzione delle sentenze capitali è stata osservata in Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Kuwait. Molti governi hanno ridotto l’uso della pena di morte commutando le sentenze, oppure evitando di mettere in pratica le esecuzioni.

In Algeria, Giordania, Libano, Marocco e Tunisia, per esempio, non è stata eseguita alcuna condanna a morte

Nessun paese però ha attuato misure efficaci contro la pena di morte né ha fatto passi avanti significativi, come emendare le proprie leggi nazionali o rispondere agli appelli internazionali.

Molti di loro, anzi, hanno votato contro la risoluzione per una moratoria sull’uso della pena di morte adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 20 dicembre 2012.

“I governi che utilizzano ancora la pena di morte non hanno più scuse”, ha affermato Salil Shetty, segretario generale dell’organizzazione nel commentare il rapporto. Una pena che “nega il diritto alla vita, ed è crudele, disumana e degradante”.

In Arabia Saudita, dove le esecuzioni avvengono per decapitazione con una spada e spesso si svolgono in pubblico, dei 79 condannati a morte 29 avevano commesso reati che non avevano provocato vittime.

April 10, 2013di: Francesca Gnetti Algeria,Arabia SauditaBahrain,Emirati Arabi UnitiGiordania,Iran,Iraq,Libano,Marocco,Palestina,Siria,Tunisia,Yemen,

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