Iraq. Voci da Mosul

Mentre la maggior parte del versante nord di Mosul torna sotto il controllo del governo iracheno, e il gruppo estremista conosciuto come Stato Islamico (Daesh) viene spinto via, il mondo inizia ad ascoltare le testimonianze di chi è riuscito a fuggire. Circa il 60% della città è, ad oggi, libera da Daesh.

Chi è fuggito, ha portato con sé piccoli bagagli e lunghe storie.

Ahmad al-Haj è un ex-impiegato del settore tessile di 55 anni. Fino a poco tempo fa ha vissuto nel quartiere di Zuhour, a Mosul, dove ci sono stati molti scontri armati sino a poche settimane fa.

Adesso lui e i 7 membri della sua famiglia vivono in una piccola tenda nel campo di Khazar, allestito ad est di Mosul per accogliere gli sfollati.

“Una notte in cui la battaglia era particolarmente accesa ci siamo riuniti tutti in una sola stanza della casa”, racconta Ahmad. “Dopo poche ore abbiamo capito che i combattimenti avevano raggiunto il nostro vicolo. Si sentiva il rumore di qualsiasi arma da fuoco, esplosioni… eravamo terrorizzati ma, allo stesso tempo, cercavamo di distrarre i bambini, di non farli piangere. Quando gli spari si sono fermati sono uscito per vedere cosa fosse accaduto. Sono stato estremamente sorpreso di vedere tanti uomini delle forze di sicurezza puntarmi le armi contro e gridarmi di stendermi a terra”.

Ahmad lo fa, tentando di scoraggiare gli uomini a sparare. “Gli ho detto di essere un civile, che la mia famiglia viveva in casa”.

“Mia moglie è uscita di corsa insieme al resto della famiglia, solo a quel punto immagino che mi abbiano creduto. Cercavano di calmarci quando abbiamo sentito una forte esplosione nella casa vicina. Vetri rotti, urla. Abbiamo capito che una granata era entrata nella casa dei vicini, lanciata da uno degli uomini di Daesh. Ci siamo nuovamente rifugiati in casa, sotto le scale, in attesa che tutto finisse”, racconta.

E’ a quel punto che lui e la sua famiglia vedono un combattente di Daesh saltare sul tetto di un veicolo militare delle forze di sicurezza portando con sé un esplosivo. “Ha ucciso due uomini ma gli altri soldati non si sono fatti prendere dal panico e hanno continuato a combattere. Erano incredibilmente fieri”.

Allah Akbar (Dio è il più grande), urla il miliziano. “Ma i soldati gli hanno detto che aveva due scelte: arrendersi o morire. Dopo pochi minuti ho sentito un’altra forte esplosione: ho avuto l’impressione che la mia casa mi stesse crollando in testa. Abbiamo tutti pensato che fosse arrivata la nostra ora. Ma poi i soldati sono entrati, le scale ci avevano protetto”, spiega Ahmad.

“Ci abbiamo messo un po’ a capirlo: eravamo tutti vivi”.

Iqbal Hussein, 30 anni, appena è riuscita ad uscire da Mosul si è strappata via il velo. Lei, come tutte le donne in città, sono state costrette da Daesh ad indossarlo. Ha festeggiato così la fuga, insieme alla sua famiglia. Adesso è Baghdad con la sua famiglia, e lì l’abbiamo incontrata.

“Vivevamo in una prigione, spaventati da tutto e da tutti”, racconta Iqbal. “Daesh uccideva le persone per ragioni ridicole, come il fatto di avere un cellulare. La mia bimba di 4 anni ha notato quanto fossi attenta a nasconderlo e un giorno mi ha detto: ‘Se non mi dai quello che voglio vado a dire ai ragazzi di Daesh che hai un telefono’. Sono scoppiata a ridere. Ma poi mio zio è stato ucciso per questa ragione. Ho iniziato a pensare che nella sua innocenza di bambina avrebbe davvero potuto dire qualcosa a qualcuno. Non volevo essere uccisa anche io”.

La paura fa fare cose di questo tipo. Come impedire ai bambini di guardare i cartoni.

“Ho pensato che se qualcuno l’avesse sentita cantare le canzoni dei cartoni animati, avrebbero capito che avevamo una televisione”, racconta la donna. “Era una vita insopportabile. Abbiamo deciso di provare a scappare. Abbiamo fatto un piccolo bagaglio e cercato di passare nella parte est della città su una piccola barca (Mosul è divisa in due dal fiume, ndt). Tutti i ponti erano stati distrutti. Ma Daesh non lasciava che i civili andassero sulla sponda opposta, volevano usarci tutti come scudi umani per impedire all’esercito iracheno di avanzare. Abbiamo mentito. Gli abbiamo detto che avevamo dei parenti nella parte est, che volevamo solo andarli a trovare”.

I miliziani requisiscono i documenti di tutta la famiglia, perché sia costretta a tornare indietro.

“Ma eravamo pronti a sacrificare tutto pur di essere liberi”, spiega Iqbal. “C’erano forti combattimenti, ma io, mio marito e i nostri 4 bambini abbiamo corso più che potevamo, a testa bassa, dietro i muri. Sulla strada ci hanno seguiti tante altre famiglie. Abbiamo camminato sulle macerie mentre i proiettili ci giravano intorno. Eravamo sicuri che i cecchini di Daesh stessero cercando di colpirci”.

Per mettersi in salvo ci sono volute 5 lunghe ore. Gli uomini di Daesh li hanno fermati più volte, ma Iqbal e la sua famiglia sono riusciti a passare oltre. “Ci hanno chiesto soldi, le chiavi della macchina. Ma adesso non devo nascondermi sotto le scale ogni volta che sento volare un areo. Siamo fuori dal ventre della balena. Siamo liberi”, sospira la donna.

Nel 2012 avevamo pubblicato una storia su tre cittadini di Mosul che avevano dato vita ad una band all’Università della città. Uno di loro era Amin Miqdad, che è rimasto a Mosul negli ultimi 2 anni nonostante la sua famiglia fosse fuggita a Baghdad quando Daesh ne ha preso il controllo.

Amin era fin troppo consapevole che Daesh avesse vietato qualsiasi forma di musica. Oggi ha 27 anni, ed è arrivato a Baghdad per ritrovare la sua famiglia appena una settimana fa.

“Ho insistito, volevo restare. E ho deciso anche di continuare a suonare”, racconta. “Il mio più caro amico veniva da me, suonavamo insieme la chitarra e scrivevamo canzoni. Ho organizzato un piccolo studio di registrazione in casa, accertandomi che nessuno potesse sentire la musica”.

Un giorno di giugno, nel 2015, gli uomini di Daesh hanno fatto irruzione in casa sua. “Hanno preso tutti i miei strumenti e i miei cd. Mi hanno minacciato di morte e portato in prigione. Ringrazio dio che non l’abbiano fatto: so benissimo che avrei potuto essere ucciso se solo lo avessero voluto”.

Quando viene liberato, Amin lascia la sua casa e si trasferisce da uno zio, in un’altra zona della città. “Ma mi rifiutavo di arrendermi. Ho usato gli strumenti di mio zio e ho ricominciato a suonare per allontanare i suoni delle bombe e delle armi dalla mia testa”.

Una delle cose più divertenti che ricorda di quel periodo è un amico, che a forza di andarlo a trovare ha finito per imparare a suonare la chitarra. “Veniva e mi vedeva suonare ogni giorno. Non c’era lavoro, non c’era università, tutto era così ripetitivo e morto. Alla fine ha imparato a suonare!”, scherza Amin.

“Non potrò mai dimenticare il giorno in cui hanno preso gli strumenti. Ma ho preso la mia rivincita. Ho composto almeno 25 canzoni da quel momento. Le ho pubblicate su YouTube, le ho messe in rete sotto il nikname Yusur”, racconta.

“Ci hanno portato via molto. Ma ho ancora la musica dentro di me”.

*Questo articolo è stato pubblicato su Niqash, giornale online indipendente iracheno. La traduzione dall’inglese è a cura di Joseph Zarlingo. Per la versione originale clicca qui.

January 25, 2017di: Niqash*Iraq,

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