Giornata internazionale dei rifugiati. I compiti dell’Italia

“L’Italia deve passare da un’ottica di emergenza a politiche strutturate e ben finanziate per profughi e rifugiati”. Intervista a Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr.

Da gennaio di quest’anno Carlotta Sami è la nuova portavoce dell’ufficio di Roma dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr), la cui area di competenza comprende gran parte del Mediterraneo orientale. Una delle zone più calde del mondo, quindi, per la questione rifugiati e richiedenti asilo. Ecco come ha risposto alle domande di Osservatorio Iraq.

Ogni anno, il 20 giugno, si celebra la Giornata mondiale dei rifugiati. Ha un senso particolare quest’anno, per il Mediterraneo e per l’Italia?

La giornata dei rifugiati ha ogni anno per noi un senso stringente, ma quest’anno c’è un’emergenza particolare causata innanzi tutto dalle guerre in corso. Gli effetti di tutto questo li vediamo anche molto chiaramente nel nostro paese. Le distanze geografiche e temporali si sono ormai quasi annullate e quello che succede in un paese in conflitto più o meno lontano da noi, ha conseguenze quasi immediate anche qui e riverbera sulle scelte politiche da fare, sui temi dell’agenda istituzionale, sulla vita quotidiana. Non è però una questione che tocca solo l’Italia, ma riguarda tutta l’Europa.

Le politiche di accoglienza dei profughi e dei potenziali rifugiati continuano a essere gestite sempre in una situazione di emergenza. Cosa manca all’Italia per uscire da questa ottica?

Ogni anno, dalla primavera in poi, l’Italia entra in emergenza per l’arrivo dei profughi che attraversano il Mediterraneo. Accade ormai da molto tempo. Per noi questa non è una emergenza: se dovessimo considerare un’emergenza 56 o 57 mila persone arrivate in Italia dall’inizio del 2014, cosa dovrebbero dire i libanesi che ospitano qualcosa come un milione e mezzo di siriani o come dovremmo considerare le 500 mila e più persone che stanno fuggendo dai combattimenti in Iraq nel corso degli ultimi dieci giorni? Quella italiana continua a essere trattata come emergenza perché a un fenomeno strutturale come quello dei viaggi attraverso il Mediterraneo non viene ancora offerta una risposta strutturale. Di strutturale ci sono solo le difficoltà di un sistema di accoglienza che non è ancora all’altezza di quello che deve affrontare.

Perché c’è questa difficoltà, secondo voi?

Credo che ci sia un problema di prospettiva. Il sistema politico ed istituzionale italiano fatica ad accettare l’idea che questo sia un fenomeno strutturale, ormai di lungo periodo. Forse c’è il desiderio, la speranza, che il fenomeno si sposti, diminuisca o assuma delle caratteristiche diverse. In realtà, ormai da tempo sottolineiamo che il fenomeno non solo aumenta in termini numerici, ma acquista anche delle caratteristiche diverse che lo rendono più complesso e di più difficile gestione. Negli ultimi tempi, per esempio, è cambiata molto la proporzione tra migranti economici e rifugiati, per cui abbiamo un problema di gestione delle domande di asilo. E di nuovo bisogna chiamare in causa l’Europa, visto che l’Ue si è dotata di una politica di asilo comune, di una normativa di asilo comune, che interessa tutti i paesi dell’Unione e però complica ancora la situazione perché entrano in gioco altri fattori, come le relazioni tra i diversi paesi dell’Ue e la suddivisione delle risorse disponibili, peraltro sempre di meno.

C’è stato un cambiamento di attitudine dell’Italia rispetto agli arrivi dal Mediterraneo negli ultimi anni?

L’atteggiamento è sicuramente più improntato al salvataggio in mare e questo è uno sviluppo positivo senza alcun dubbio. Noi chiediamo da tempo che si facciano più sforzi possibile per offrire ai profughi un’alternativa legale che eviti i viaggi nel Mediterraneo, crediamo tuttavia che a breve e medio termine questo fenomeno continuerà e quindi sosteniamo questa politica di salvataggio in mare, senza la quale avremmo avuto senza dubbio migliaia di morti. Si parla di circa 23 mila morti nel Mediterraneo dal 2000 ad oggi: una cifra già tragica, che non riguarda però solo le coste italiane. Senza le operazioni di salvataggio, la situazione sarebbe sicuramente ancora più drammatica. L’operazione Mare Nostrum ha avuto il merito di salvare molte vite, ma è un’operazione che ha i suoi limiti, in particolare è chiaro che non può interessare tutto il Mediterraneo se non diventando un’operazione europea.

Uno dei problemi che l’Unhcr ha avuto negli ultimi anni è stato il lavoro sulla sponda sud del Mediterraneo. In Libia, per esempio, lavoravate con enorme difficoltà, quando e se il regime di Gheddafi ve lo concedeva. Com’è adesso la situazione?

Purtroppo non è cambiata. Proprio poco tempo fa, in Libia, per la seconda volta non abbiamo avuto il visto per il nostro rappresentante. Abbiamo pochissimi colleghi sul campo; pochi mesi fa due nostri colleghi sono stati feriti in uno scontro a fuoco. Cerchiamo di controllare diversi centri per migranti nei quali ci viene dato il permesso di entrare, abbiamo stabilito delle partnership con altre organizzazioni per cercare di intervenire quando dei profughi vengono fermati nel tentativo di lasciare la Libia via mare; diamo assistenza sanitaria. Ci siamo, insomma, ma con delle forze molto ridotte e quello che cerchiamo di fare è avere un canale di comunicazione costante tra noi qui in Italia e loro.

In altri paesi, come l’Egitto, qual è la situazione?

In Egitto siamo presenti e interveniamo regolarmente in tutti i casi che ci vengono segnalati, per esempio di recente in un caso di rifugiati siriani che erano stati arrestati. A proposito dei siriani in Egitto, c’è da notare che la situazione è molto cambiata negli ultimi mesi. Fino a gennaio potevano entrare nel paese senza problemi, ma dall’inizio dell’anno non sono più autorizzati ad entrare senza visto e in più ci sono stati casi di respingimenti e di arresti arbitrari anche in condizioni molto difficili. E’ uno dei motivi per cui i siriani stanno lasciando l’Egitto e, come dicevo prima a proposito delle distanze che si accorciano, uno dei motivi per cui aumenta la presenza di siriani tra le persone salvate nel Mediterraneo.

Dal punto di vista legislativo, l’Italia continua a essere indietro sulla legge d’asilo e ad avere un sistema di accoglienza farraginoso. Quali dovrebbero essere secondo voi i cambiamenti a cui il Parlamento dovrebbe mettere mano?

L’Italia quest’anno ha una grande opportunità, perché sta convertendo in legge italiana le direttive europee che riguardano l’asilo. Stiamo lavorando moltissimo affinché ci possano essere delle previsioni normative che snelliscano le procedure e facilitino l’integrazione. Entrambi questi aspetti hanno bisogno però che ci siano risorse economiche adeguate. Ci auguriamo che questo avvenga, ma la settimana scorsa abbiamo purtroppo registrato una battuta d’arresto: la legge che avrebbe dovuto contenere la delega al governo su questa materia e che avrebbe dovuto prevedere una serie di indicazioni di merito e di indirizzo che noi avevamo caldamente sostenuto, è arrivata invece al governo in bianco. Per noi è una delusione perché ci auguriamo che il governo non si limiti poi a presentare un decreto legislativo che non contenga indicazioni sulle coperture finanziarie, senza le quali qualsiasi previsione normativa perde di efficacia.

Ha ripetuto più volte che le politiche vanno coordinate a livello europeo. In questa chiave, come potrebbe essere usato il semestre di presidenza italiana che sta per aprirsi?

Noi speriamo che ci sia soprattutto un dialogo tra i paesi europei, che non ci siano atteggiamenti di muro contro muro o di scambio tra posizioni politiche misurate sulla pelle delle persone che cercano di arrivare in Europa per sfuggire ai conflitti. Speriamo che l’Italia, gli altri stati membri e la Commissione possano finalmente procedere con obiettivi comuni nell’ottica di una responsabilità condivisa e vicendevole. Riprendo il discorso sulle alternative legali per evitare che le persone si imbarchino: ecco questo è un campo in cui la coordinazione europea potrebbe fare molto, per esempio aumentando il numero di persone da accogliere in paesi diversi da quello dove arrivano. L’Italia deve migliorare su determinati aspetti della gestione dei profughi, ma gli altri paesi europei devono aprirsi all’idea di condividere questa responsabilità. Alcuni segnali positivi ci sono: per esempio la Germania di recente ha deciso di accogliere altri 10 mila profughi siriani.

L’Unhcr ha lavorato molto anche per cercare di modificare il modo in cui i media raccontano quello che succede nel Mediterraneo. A che punto siamo?

Ci sono stati miglioramenti importanti sui media italiani, sotto diversi aspetti. Per esempio c’è maggiore attenzione alle storie individuali dei rifugiati e dei profughi e meno la trattazione solo quantitativa. Alcune parole come ‘clandestino’ vengono usate sempre meno, anche sulla stampa meno incline ad accettare le politiche di accoglienza. Certo, i contesti sono spesso discutibili, ma comunque c’è almeno una maggiore attenzione ad evitare certi termini particolarmente discriminatori. C’è grande attenzione sulla Siria e questo è un dato positivo, ma nello stesso tempo i media italiani sono molto carenti nel raccontare altri conflitti o altre situazioni che causano esodi. Penso al Mali, o ancora di più all’Eritrea: gran parte delle persone salvate nel Mediterraneo sono eritree, eppure non c’è mai un approfondimento sulla situazione di un paese che pure ha legami storici e culturali molto forti con l’Italia. Uno sforzo di informazione maggiore da parte dei media è senz’altro auspicabile anche per consentire ai cittadini di comprendere meglio quello che succede.

June 20, 2014di: Enzo ManginiArticoli Correlati:

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