Egitto. Libertà per Mahienour El Massry

Mahienour El-Massry, 28 anni, avvocata ed attivista per i diritti umani, è in carcere per aver manifestato pacificamente. Un caso emblematico della repressione del dissenso che avanza a grandi passi nel “nuovo” Egitto del Generale Al-Sisi.

E’ una domenica soleggiata quella dell’8 giugno e fin dal mattino i fuochi d’artificio partono con il loro solito scoppiettìo che da una settimana a questa parte assorda il centro città del Cairo. Le strade sono semi-deserte, in balìa dei gatti che assuefatti ai rumori si aggirano indisturbati a frugare nei cumuli di sporcizia accatastati sui marciapiedi.

Eppure è un giorno di festa nazionale. Si celebra la presa di potere ufficiale del Comandante in Capo delle Forze Armate Abdel Fattah Al Sisi, il nuovo presidente egiziano eletto con una percentuale bulgara del 97% alle scorse elezioni del 26 e 27 maggio.

I botti sembrano un richiamo all’assembramento e vengono scanditi come i rintocchi delle campane di una chiesa. Verso il pomeriggio una discreta folla munita di bandierine egiziane si raduna a Tahrir per i festeggiamenti.

Quella che una volta era la piazza simbolo della rivoluzione egiziana è oggi circondata da carri armati, filo spinato e metal detector. Due Apache ronzano intorno a un centinaio di persone che mostrano magliette e ritratti in tutte le salse dell’ex-Generale.

Nel buio delle prigioni egiziane, invece, molta è la gente che non ha voglia di festeggiare. Nei soli ultimi 10 mesi gli arresti hanno raggiunto un picco di quasi 25.000 persone, almeno 2.000 sono morte negli scontri e le torture della polizia continuano impunite.

Il clima è pesante. Uno stato di polizia in cui anche postare una frase su Facebook contro il regime può costare caro, così come una parola di troppo scambiata con uno sconosciuto in un caffè o partecipare ad una manifestazione pacifica.

La minaccia del “terrore” e delle “derive islamiste”, seppur reale e presente, è la cartina tornasole per raggruppare il dissenso sotto il comune denominatore di “nemici della nazione” e falciare ogni voce critica fuori dal coro.

Una di queste voci è quella di Mahienour El Massry, probabilmente tra le più potenti perché seguite da azioni concrete nel quotidiano e, per questo, considerate tra le più pericolose.

Mahienour è una ragazza di 28 anni e non sta né dalla parte dei Fratelli Musulmani, né dalla parte dell’esercito. Fa parte di quel “grigio” che non rientra nelle macro-categorie di polarizzazione che stanno dilaniando il paese, ma rappresenta piuttosto quella fascia di ragazzi tra i 15 e 35 anni che si batte per unire la società sotto auspici ugualitari.

Prima di tutto “pane, libertà e giustizia sociale”, il grido che nel 2011 tuonava nelle piazze egiziane, è un’esigenza sentita oggi da gran parte della popolazione, a maggior ragione della sempre più profonda crisi economica, a prescindere dal colore politico.

E’ stata lei una delle principali organizzatrici delle manifestazioni che chiedevano giustizia per Khaled Said, un ragazzo brutalmente picchiato a morte senza reale motivo dalla polizia di Alessandria esattamente quattro anni fa, risvegliando quell’attenzione pubblica che l’avrebbe poi fatto diventare il mito fondante della rivoluzione.

Il 20 maggio Mahienour è stata condannata insieme ad altri otto attivisti a due anni di prigione e ad una multa di 8.000 euro per aver organizzato una manifestazione proprio in memoria di Khaled Said di fronte alla Corte di Alessandria lo scorso 2 dicembre, il giorno del processo ai due ufficiali responsabili della morte del ragazzo, prosciolti poi dalle accuse.

I capi d’imputazione per El Massry pendevano dallo scorso 8 gennaio: “Attacco a pubblico ufficiale e danneggiamento di una camionetta della polizia”, sostenuti dal nuovo quadro legale della legge anti-proteste varata a novembre, che vieta ogni tipo di manifestazione.

In realtà, e ci sono video e foto a confermarlo, Mahienour era corsa in soccorso di un suo amico e compagno nei Socialisti Rivoluzionari, il dottor Taher Mukhtar, attaccato alla gola da un poliziotto mascherato e armato di coltello.

“Un’arma che legalmente non avrebbe dovuto nemmeno avere su di sé” raccontava Mahienour al telefono a inizio gennaio, “dalla legge anti-proteste la polizia è diventata ancora più violenta, non lascia nemmeno il tempo di disperderci dopo l’annuncio della carica. Partono subito con lacrimogeni, cannoni d’acqua e in certi casi con le munizioni vere e proprie”. In una città “piccola” come Alessandria, inoltre, “tra attivisti e poliziotti ci conosciamo tutti per nome e gli scontri si trasformano in un’occasione per il regolamento personale di conti”.

El Massry conosce bene i suoi diritti, è un avvocato per i diritti umani che ha seguito moltissimi casi simili ai suoi in precedenza.

Ha fornito assistenza legale alle famiglie dei martiri, a centinaia di lavoratori licenziati senza pretesto e perfino co-fondato un’associazione con Mukhtar, il Refugee Solidarity Network, per l’assistenza medico-legale ai rifugiati sirani e siriano-palestinesi rinchiusi nelle carceri alessandrine per aver tentato di raggiungere clandestinamente le coste europee via mare.

Il dottor Moukhtar racconta che l’attacco nei suoi confronti “era proprio per una questione legata ad uno scontro con alcuni ufficiali nella prigione di Montaza II [Alessandria] qualche giorno prima della manifestazione, non volevano farmi visitare i detenuti e ho sollevato un polverone”.

Tutti quelli che hanno avuto il piacere di conoscere Mahienour e lavorarci insieme concordano sul fatto di essersi trovati davanti una persona molto in gamba, estremamente disponibile e onesta, sempre di corsa tra un sit-in di lavoratori in sciopero e visite nelle carceri.

Conosce a memoria le singole storie di tutte le persone che ha seguito, compresi i loro problemi personali e i dettagli delle loro vite antecedenti. Un approccio molto umano riconosciuto ed apprezzato. E questo si è visto anche nelle reazioni in seguito al suo arresto.

Nonostante la spada di Damocle dell’intelligence egiziana, per le strade e su Internet si sono scatenate manifestazioni di solidarietà nei suoi confronti, compresi incontri e mostre fotografiche. C’è chi addirittura si è messo immediatamente a disegnare sue spillette e stampare adesivi di propria iniziativa chiedendone l’immediata liberazione.

E c’è chi, invece, è già finito in prigione, come il suo legale Mohamed Ramadan o lo stesso Taher Moukhtar. In un incontro organizzato ad Alessandria da una Ong per i diritti umani sul caso di Mahienour, la riunione è stata sgomberata dalla polizia: sono scattati una ventina di arresti, gli uffici della Ong messi sottosopra e gli archivi trafugati.

In molti nella sua cerchia più stretta le avevano sconsigliato di presentarsi all’udienza. Ma lei ha deciso di andarci comunque, per pagare la stessa pena di un ragazzo accusato e già imprigionato per i suoi stessi capi d’imputazione: “Islam Hasanein è il mio punto debole in questo caso, è un ragazzo che è stato arrestato per sbaglio. Non conosceva neppure Khaled Said, e nonostante questo è stato accusato e il padre è morto di un attacco cardiaco subito dopo il suo arresto. Non posso rifiutarmi di affrontare la sua stessa sorte”.

E’ il suo ultimo messaggio prima della condanna, a cui aggiunge: “Voglio guardare negli occhi i giudici che mi condanneranno per aver organizzato una manifestazione, quegli stessi giudici che abbiamo sostenuto manifestando nel 2006, quando eravamo ancora giovani e naif”.

Il prossimo appello sarà il 28 giugno, ma le possibilità di rilascio sono molto scarse. Due giorni fa è arrivata la sua prima lettera dalla prigione. Non si lamenta delle sue condizioni e accenna al fatto che probabilmente ci sarà qualche manifestazione di solidarietà nei suoi confronti, come succede di consuetudine in questi casi, ma ci tiene a puntualizzare:

Alla fine, se dobbiamo davvero intonare slogan di libertà per qualcuno, allora gridate Libertà per Sayeeda, Heba e Fatima, tre ragazze che sono accusate di far parte dei Fratelli Musulmani e sulle cui teste pendono accuse gravi quanto quelle di omicidio. Sono state arrestate e detenute in modo totalmente arbitrario e da gennaio il loro processo viene continuamente rinviato senza nemmeno farle presenziare di fronte a un giudice!

Libertà per Om Mohammad, che non vede i suoi figli da otto anni; libertà per Om Dina, che è l’unica a portare a casa il pane nella sua famiglia; libertà per Naima che ha fatto da prestanome in cambio di una somma di denaro per sfamare i suoi figli. Libertà per Farha, Wafaa, Kowthar, Dowiat, Samya, Iman, Amal e Mervat.

Le nostre pene [di attivisti] non sono nulla in confronto a loro: noi sappiamo che qualcuno ci ricorderà di tanto in tanto, e menzionerà magari con orgoglio il fatto di averci conosciuto. Ma chi parlerà di loro con orgoglio? Non sono nemmeno menzionate se non nei ritrovi familiari.

Quindi, dico, abbasso questa struttura di classe! Perché non saremo mai in grado di raggiungere i nostri obiettivi finché non smetteremo di dimenticare chi sono i veri oppressi!”.

E libertà per Mahienour El Massry. Perché servono voci come la sua per ricordarcelo ogni giorno.

*La pagina Facebook della campagna che ne chiede la liberazione è qui.

June 09, 2014di: Costanza SpocciEgitto,

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