“Distance from home”: le rotte dei migranti diventano musica

E’ possibile racchiudere 37 anni di fughe e migrazioni in meno di tre minuti? Brian Foo, giovane artista e programmatore di New York, ha avuto subito le idee chiare in merito.

La musica era la risposta, l’unico medium capace di spogliare numeri e statistiche della loro naturale freddezza per rivestirli del pathos e dell’emotività che questo tema delicato porta con sé.

Distance from home” è il risultato di questo lavoro certosino di trasformazione: utilizzando come base i dati ufficiali delle Nazioni Unite sui rifugiati, sfollati e richiedenti asilo, Foo è così riuscito a tradurre in note e suggestioni musicali lo spazio-tempo descritto nei grafici, tra nozioni e campionamenti che si uniscono e si rincorrono grazie a formule e algoritmi ben precisi.

Il video, largamente ispirato al progetto multimediale The refugee project, mostra una mappa mondiale in cui le linee cinetiche delle rotte via via si sovrappongono e s’intensificano col passare degli anni, mentre i suoni ricalcano questi movimenti, con un effetto complessivo quasi ipnotico e a tratti sconcertante.

“Ad un certo punto mi sono chiesto se fosse possibile tradurre in canzone il movimento su distanze variabili. Ho pensato ai percorsi di migrazione come a corde di una chitarra che cambiano tono al mutare delle distanze: a distanza maggiore corrisponde una nota più lunga e più bassa, e viceversa” ci spiega Foo, raccontando la genesi della sua idea.

La scelta dello strumento principale da campionare è ricaduta infatti sulla “pedal steel guitar”, un’evoluzione della “chitarra hawaiana”, che si suona con lo slide e i pedali. Una decisione presa dopo aver ascoltato una lezione dell’antropologo musicale Aaron Fox, che aveva definito questo tipo di chitarra come “lo strumento country americano per eccellenza, legato ai temi universali della migrazione, del rimpianto e della nostalgia di casa” e riconosciuto come il “simbolo di una voce umana che grida”.

Il risultato finale, in realtà, di country ha ben poco. A dominare è al contrario una sorta di sottofondo ambient-elettronico, un movimento sonoro a tratti angosciante che ben si adatta al tema e al contesto di queste migrazioni forzate che si fanno via via più intense, per poi calare leggermente verso la fine.

“Molti mi hanno detto che la mia canzone suscita immagini e suoni sia piacevoli sia dolorosi, che era proprio quello che volevo ottenere” continua Foo. La felicità di arrivare in un luogo sicuro, di iniziare una nuova vita, ma anche la sofferenza passata, l’odissea del viaggio, le persone care e gli amici che non ce l’hanno fatta, la sovente precarietà del presente: le suggestioni di questa condizione sono infinite.

“I dati dell’Onu arrivano al 2012, ma in questi ultimi anni in cui i conflitti nel mondo si sono ancora più globalizzati, probabilmente la mia canzone oggi sarebbe ancora più stratificata e complessa” continua Foo, che ricorda, tra i vari eventi, l’esacerbarsi della situazione siriana, o le violenze di Daesh.

Ci sarà spazio per un aggiornamento? Foo per il momento non lo dice, ma ha in cantiere altri progetti, che come questo uniscono le sue passioni per le formule e i numeri con l’impegno sociale e la sua sensibilità artistica.

Lui si definisce infatti un “data-driven dj”, con l’obiettivo di esplorare nuove vie intorno alla fruizione dei dati, al di là delle forme scritte e visive. Un esperimento intellettuale e artistico interessante, che vale la pena conoscere. Tra i suoi lavori musicali passati: un video che segue i livelli di inquinamento dell’aria a Pechino, o il suo primo progetto che racconta la diseguaglianza a New York seguendo come filo narrativo il percorso sotterraneo di due linee della metropolitana.

“Il mio scopo – precisa – è creare una musica che la gente possa ascoltare e ricordare, ma che contemporaneamente si faccia veicolo di informazioni importanti. La speranza è che con la musica, gli ascoltatori si ricordino anche dei problemi ad essa associati”.

September 13, 2015di: Anna Toro Video:

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