Diario dall’altro Iraq/14. Sotto il sole iracheno

“Gli iracheni resistono. Non lo fanno scendendo in piazza, manifestando dissensi, infervorandosi politicamente. Svegliarsi, aprire gli occhi ogni mattina, è l’atto di resistenza che più di ogni altro ha senso compiere”. Un nuovo racconto dall’altro Iraq da Stefano Nanni da Dohuk.

Undici mila euro. Non un centesimo in più, non un centesimo in meno. A tanto corrisponde il prezzo da pagare per un nuovo inizio. Una vita nuova in Europa, in Germania, “dove l’economia va bene, tutti lavorano, guadagnano e hanno una vita felice”.

Ma arrivarci, a quella vita, è un viaggio per lo meno “rischioso”, secondo K., ezida di Sinjar rifugiato nel Kurdistan iracheno, nel campo di Berseve 1, al confine con la Turchia, nel distretto di Zakho.

“I soldi vanno tutti allo smuggler (contrabbandiere, ndr), che ti organizza il viaggio da qui in Turchia, da lì in Grecia, dalla Grecia all’Italia e poi, se tutto va bene, riesci ad attraversarla in meno di un mese”. Fosse così semplice, K. lo farebbe? “No, ne ho visti troppi di morti in quel mare (Mediterraneo, ndr), e altrettanti e molti di più ne vedo qui in Iraq. Lasciamo perdere”.

Lo dice però con un pizzico di rammarico, mentre la moglie e la madre cominciano a portare le pietanze del giovedì, parte di un grande pranzo che offrono alla famiglia più povera del campo ogni settimana. “Lo facciamo da quando è morta mia sorella, per riconciliarci con il mondo partiamo dalle persone, ogni settimana”.

Niente Germania quindi. E dove allora, se l’Iraq non è più un posto dove stare?.

“L’America è il sogno, e al tempo stesso il posto più concreto dove mi vedrei con la mia famiglia”. K., come tanti giovani ezidi di Sinjar, ha lavorato come interprete con l’esercito statunitense nel periodo 2006-2007, biennio orribile in cui oltre al caos post-invasione gli iracheni hanno vissuto anche una sanguinosissima guerra civile.

Oggi, di quel lavoro, che non ricorda tuttavia con grande entusiasmo, rimane la speranza che il governo degli Stati Uniti accetti la sua domanda di visto, che tanti iracheni, sfollati o meno, che hanno avuto a che fare con esercito o un’azienda a stelle e strisce, stanno presentando dall’irruzione di Daesh in poi.

“Basta Iraq, basta sofferenze, basta violenza. Magari un giorno torneremo, ma prima vogliamo dare una speranza ai nostri figli”, dice K. accarezzando sua figlia di un anno.

Sotto il sole iracheno ne succedono tante. Troppe, che non riesci ad assorbire un fatto, un evento, una storia, che un attimo dopo se ne materializza un’altra. E un’altra ancora, dopo un altro, tutti i giorni.

Nei campi di Berseve 1 e 2 – contigui, ma con strutture totalmente diverse: l’uno con un bagno e una cucina ogni due tende, tutte con base in cemento; l’altro con una linea di servizi per settore, ovvero un bagno ogni 15 famiglie e tende che poggiano su nient’altro che pietre – vivono oltre 20mila persone.

“Con questo caldo prima o poi succederà qualcosa”, sbotta D.. “E’ da mesi che presentiamo a tutti, a qualunque Ong, il problema delle fognature. E nessuno ci ha dato una mezza risposta su una possibile soluzione!”.

Troppe persone, troppi bisogni, poche risorse per lo smaltimento delle acque reflue. E che quindi vengono fuori, malattie come la scabbia seguono a ruota, così come serpenti, vipere e scorpioni che in condizioni di poca igiene trovano un buon habitat. “E poi le mosche. Le hai viste le mosche? Tra poco ci saranno 50 gradi all’ombra, se avessimo almeno un minifrigo potremmo salvare il cibo…”.

D. soffre. Di cosa, non lo sa neanche lei. “Mi fa male sempre la testa, non riesco più a stare in tenda e quindi devo uscire, parlare con qualcuno, o almeno avere qualcuno che mi ascolti”. Ci prova con uno psicologo, ma “è sempre troppo impegnato, ha poco tempo da dedicare a tutti noi”.

Come lei anche J., che vive nel campo di Shariya, nel distretto di Semel, ha bisogno di qualcuno. Forse ne aveva bisogno più di sempre mercoledì scorso, prima di svenire all’improvviso di fronte a tutti, cadere per terra, sbattere la testa e risvegliarsi quando nessuno ormai se lo aspettava.

Una forte asma, la corsa nell’ospedale e la chiamata della madre hanno concluso la giornata, “che però forse si ripeterà, se J. e la madre non verranno seguite adeguatamente”, dice lo psicologo che l’ha visitata mercoledì scorso.

J. ha attacchi di asma da quando la madre è stata liberata da Daesh, un mese fa, e ha raggiunto le figlie nel campo. Forse non pensava più di rivederla, oppure non è riuscita né a capire né a credere a quanto la madre ha vissuto, che il suo corpo reagisce in questo modo.

Un corpo che invece non reagisce più, in parte, è quello di B.. Era a Mosul fino a due mesi fa, quando un’autobomba gli ha bruciato per intero una gamba che da allora non riesce più a muovere. E che si tiene insieme in un modo che forse nemmeno lui sa, “con un sistema di ferri che se non pulisco almeno una volta a settimana rischio una brutta infezione, che ho già avuto più volte”.

“A quel punto”, dice, “tanto vale tagliarla (la gamba)”, visto che qui a Dohuk nessuno è in grado di fare nulla. Vivendo in un edificio in costruzione, per lui la vita è ancora più complessa. “Quando riesco ad alzarmi faccio un giro fuori, di sera però, quando sono poche le persone che possono vedermi”.

“Vivere così però mi rende pazzo”.

Da quando tutto questo è cominciato sono passati 12 lunghissimi mesi. Daesh che arriva, milioni di persone in fuga, migliaia di morti, nuove e tante bombe ed armi sono affluite in Iraq.

Nel Kurdistan iracheno, dei circa 1,5 milioni di persone che vi si sono rifugiate, la stragrande maggioranza vede oggi la sua famiglia divisa. Qualcuno è morto, qualcun altro è stato rapito, altri sono rifugiati in un’altra località, e altri ancora si sono persi tra le montagne, specialmente coloro in fuga da Sinjar, durante lo scorso agosto.

Dopo aver respirato e mangiato polvere è arrivato l’inverno, il freddo, quello brutto, che ti penetra nelle ossa. Se sei sopravvissuto hai visto una tiepida e rivitalizzante primavera, ma il sogno è durato poco perché ora la routine è afa, caldo, un sole bollente.

E per chi questa situazione la vive col cancro, la scabbia (che ha interessato nella provincia di Dohuk almeno 3 campi su 18) e la depressione una vita normale è lontana, molto lontana. E’ soprattutto la depressione, oppure apatia, noia mortale, o anche schizofrenia, la si chiami con il nome più indicato, che fa più male.

La si percepisce negli occhi e nei gesti delle donne, che nei campi o in un edificio in costruzione lavorano come dannate dalla mattina alla sera. Pulire, cucinare, riassettare, prendersi cura dei figli, andare a fare la spesa e andare a prendere l’acqua spesso mai vicina di casa. E per di più la sera soddisfare anche il marito, con la possibilità concreta che arrivi un’altra bocca da sfamare.

Se le donne non si lasciano guardare, o si è timidi per farlo, si osservano i tanti giovani nei campi, dai bambini agli adolescenti, in attesa di fare qualcosa.

Lanciano pietre, scavano per terra, e magari trovano resti di mine o bombe inesplose. Si rincorrono l’un l’altro, giocano a biglie, a calcio con un pallone di pezza, e ora che la scuola è finita per alcuni ci saranno altre situazioni da inventare.

La stessa cosa vale per tante donne e uomini adulti senza lavoro, con un trauma da rifugiato da vivere ogni giorno. Anzi no, perché se sei donna vale quanto detto sopra. Da musulmana, ezida, cristiana o quant’altro.

In una simile complessità, a tratti delirante, c’è chi si rialza. Anche il figlio di B., che fino allo scorso dicembre non poteva alzarsi dal letto. Allora aveva subito un solo intervento chirurgico a una gamba ferita durante la fuga sulle montagne.

A causa dell’infezione ne sono state necessarie altre due di operazioni. Tanti milioni di dinari spesi, una pazienza infinita e lacrime versate, ed ecco che oggi il piccolo muove i suoi primi passi con le stampelle.

Lui come tutti gli altri citati per iniziali in questo scritto resistono tutti, ciascuno a loro modo. Non lo fanno scendendo in piazza, manifestando dissensi, infervorandosi politicamente. Per loro, come per tanti, svegliarsi, aprire gli occhi ogni mattina, è una conquista.

E’ un riprendersi la vita, riappropriarsene, sentendo il corpo che risponde alle pulsazioni nervose e ha ancora voglia di alzarsi, uscire sotto il sole, assaporare un nuovo pasto, respirare aria. Perché non è detto che domani avvenga lo stesso, e allora il vivere l’oggi, “l’ora e il qui”, è l’atto di resistenza che più di ogni altro ha senso compiere.

*La foto pubblicata è di Salam Saloo – UPP.

May 31, 2015di: Stefano Nanni da Dohuk – Kurdistan irachenoIraq,Articoli Correlati:

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