Chi scappa muore. Rifugiati e sfollati sotto attacco nello Yemen

E’ il più povero fra i paesi arabi, al 152° posto nell’Indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite. Eppure ospita quasi 250mila rifugiati, in gran parte somali. Un numero tre volte superiore a quello dell’Italia, a fronte di una popolazione di 24 milioni di persone e di una quotidianità durissima, segnata dalla fame e dalle violenze di un conflitto senza regole che, dall’inizio del 2015, ha rimesso in moto le fughe via mare.

A scappare dallo Yemen, però, non sono solo i rifugiati, abituati a traversare il Mar Rosso in entrambe i sensi da diversi anni, ma, per la prima volta, anche gli yemeniti.

Fra bombardamenti aerei e imbarcazioni inadeguate, il 2015 si candida a diventare uno degli anni più tragici per chi cerca salvezza dai due lati del mar Rosso e del golfo di Aden.

Decine di migliaia di persone, in fuga continua dalle persecuzioni e da un susseguirsi di conflitti locali nello Yemen, in Somalia, Etiopia, Eritrea, Sudan, Gibuti. Ad attenderli, quando le barche reggono, le tende dei campi profughi e, spesso, viaggi nuovi, dalla meta incerta.

Hespon Goitom non ha neanche vent’anni. “Sono arrivato qui – dice con la voce rotta dall’emozione – perché in Yemen non si poteva più vivere”. Qui sta per Addis Abeba, la capitale etiopica che ha lasciato nel 2007, ancora ragazzino.

“Vivevo a Sana’a con la mia famiglia, eravamo riconosciuti come rifugiati e l’anno scorso i miei genitori sono stati scelti dall’Alto commissariato per i rifugiati per andare a vivere in Norvegia. Loro sono partiti ma io ero già maggiorenne e per Unhcr non ero più considerato parte della famiglia”.

Una separazione dolorosa, che lascia Goitom da solo, in un paese che, dall’inizio di gennaio è spezzato in mille cocci dagli scontri fra le milizie Houthi, le truppe fedeli al presidente Hadi e diversi gruppi armati.

“A Sana’a mi conoscono tutti – racconta Goitom – studiavo e lavoravo già come grafico allo Yemen Times, il quotidiano yemenita in inglese, ma senza il supporto della famiglia e con una situazione sempre più pericolosa, sono dovuto partire”.

Lo Yemen Times cessa la pubblicazione cartacea e a febbraio, mentre gli Houthi occupano il palazzo presidenziale di Sana’a, Goitom scappa verso Aden. Attraversa il mar Rosso e sbarca a Gibuti, da dove raggiunge con mezzi di fortuna l’Etiopia.

Nel frattempo l’Arabia Saudita, appoggiata da altri cinque stati arabi e dagli Usa, dà vita all’operazione “Decisive storm”: un mese di bombardamenti a tappetto nell’ovest dello Yemen, fra marzo e aprile, con l’obiettivo dichiarato di restaurare il potere di Hadi e ridimensionare quello degli Houthi.

Di definitivo però, nell’operazione saudita, ci sono soprattutto i morti, moltissimi i civili, le famiglie separate e la distruzione di strade, ospedali, scuole. Per molti, chiuse le frontiere via terra, l’unica soluzione è raggiungere il mare.

Abdullah Sharif Othman ne sa qualcosa. Referente della piccola associazione somala Dar Alber, da febbraio ha visto passare a Mukalla, città portuale nell’est del paese, migliaia di persone: “Arrivano senza niente, affamati e vanno a dormire per strada, vicino al porto, aggiungendosi alle 2mila famiglie di rifugiati già presenti a Mukalla da tempo”.

Il vuoto di potere degli ultimi mesi è stato occupato da gruppi legati a Al-Qaeda, che da aprile controllano buona parte della città, con il risultato, spiega Othman che “qui non ci sono organizzazioni internazionali che aiutano i migranti, le Nazioni Unite non arrivano, quindi cerchiamo di farlo noi, offrendo cibo, cure mediche di base e, quando possiamo, pagando anche il biglietto del mercantile che, due volte alla settimana, fa la spola fra Mukalla e Bosaso, nella regione somala del Puntland. L’unico modo per arrivare sani e salvi in Somalia”.

Sono almeno 15mila, secondo l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, le persone in fuga dallo Yemen sbarcate fra la fine di marzo e i primi di maggio in Somalia e a Gibuti.

Si tratta soprattutto di somali, seguiti da yemeniti, etiopici, eritrei, sudanesi, siriani e gibutini ma anche di alcune decine di lavoratori asiatici e europei a cui, con il blocco aereo e l’occupazione degli aeroporti, non resta che partire via mare.

Alcuni, come Goitom, una volta sbarcati, ripartono, ma non per tutti è possibile farlo, tanto che Unhcr sta allestendo campi profughi a Gibuti e in Somalia, prevedendo di assistere, entro la fine dell’anno, 130mila persone, in territori già segnati da violenze e estrema povertà.

Se chi parte con mercantili, come i rifugiati somali di cui si occupa l’associazione Dar Alber a Mukalla, è relativamente sicuro, molto migranti devono ricorrere ai servizi di trafficanti: “si parte da tutto il paese: Bab Al Mandeb, Hudayda, Mokha, Aden, Mukalla – racconta Hespon Goitom – pagando un intermediario che poi ti fa salire sulla barca, imbarcazioni minuscole di pescatori, molto pericolose tanto che per poco sulla mia non ci rovesciavamo”.

Il prezzo varia, a seconda dei tragitti e delle imbarcazioni, e può essere di alcune centinaia di euro, l’equivalente di diversi mesi di lavoro nello Yemen.

A uccidere chi fugge, secondo le poche notizie disponibili, sono però soprattutto le violenze di un conflitto che non risparmia i civili.

In almeno due casi i bombardamenti aerei a guida saudita avrebbero colpito campi per rifugiati, uccidendo diverse decine di persone, in un caso avrebbero colpito un pulmann che trasportava rifugiati somali e ai primi di maggio, secondo alcune fonti, le milizie Houthi avrebbero affondato un’imbarcazione nella baia di Aden, uccidendo 50 fuggitivi.

Chi riesce a prendere il largo rischia comunque la vita: nel 2014 Unhcr ha contato 215 decessi dovuti a naufragi o malori nella rotta del Mar Rosso.

“Da Sana’a a Addis Abeba ho pagato 500 dollari, per un viaggio pericoloso e lungo, ma ora sono preoccupato per i miei amici rimasti nello Yemen – spiega concitato Hespon Goitom, mostrando una foto – guarda, questo è un mio amico in ospedale: ora è fuori pericolo, ma le bombe non perdonano”.

La foto di un ragazzo avvolto nelle bende, il volto tumefatto, buca lo schermo del pc. Sulle pagine web dei media globali, nel frattempo, si rincorrono le notizie di una tregua che, nei deserti della politica internazionale, assomiglia sempre più a un miraggio.

*Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul sito di Unimondo.
Foto: Associazione Dar Alber

May 17, 2015di: Giacomo Zandonini*Yemen,

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