Arabia Saudita e disoccupazione, tutta colpa degli immigrati?

I lavoratori stranieri con il permesso scaduto hanno tre mesi per rimettersi in regola, pena l’espulsione e pesanti sanzioni. Un giro di vite che fa parte delle nuove misure del regno volte a combattere la disoccupazione dei giovani sauditi.

di Anna Toro

Ad essere colpiti dal nuovo decreto saranno anche i proprietari di piccole e medie imprese che assumono i lavoratori non in regola.

Per questo il governo ha formato – e assunto – mille nuovi ispettori che si occuperanno dei controlli e delle denunce, con le sanzioni includeranno multe fino a 26.700 dollari per ciascun lavoratore illegale, e un periodo di reclusione massimo di due anni.

“Nel regno ci sono 7,5 milioni di lavoratori stranieri. Abbiamo bisogno di loro e continueremo ad averne, a patto che tutto venga fatto nel rispetto delle leggi”, ha spiegato il ministro del Lavoro Adel al-Fakieh.

I tre mesi di amnistia, infatti, valgono solo per coloro che avevano già l’iqama (il visto di lavoro) e che devono rinnovarlo (a determinate condizioni potranno anche cambiare sponsor e lavoro), mentre per coloro che sono entrati illegalmente nel regno c’è il rimpatrio, volontario o forzato.

Come parte delle nuove misure da attuare, il ministero ha istituito perfino un numero verde gratuito per segnalare le violazioni.

Per ora, secondo stime delle ambasciate e dei consolati hanno fatto domanda per il rinnovo del permesso di soggiorno circa 83.000 lavoratori: si parla di 60.000 indiani, 10.000 filippini, 7.000 cittadini dello Sri Lanka e 6.000 pakistani, che corrispondono alle nazionalità più presenti nel paese a livello di forza lavoro.

Ma si stima che nel regno vi siano oltre 2 milioni di stranieri che i documenti non li hanno mai avuti, e verso i quali la campagna repressiva saudita è già cominciata in modo deciso.

Il ministro al-Fakieh ha parlato di circa 200.000 stranieri deportati solo negli ultimi mesi, aggiungendo che, dall’introduzione della Nitaqat nel 2011, 840.000 hanno già lasciato il paese “volontariamente”.

Si tratta di una legge sul lavoro nazionale che rende obbligatorio per le imprese locali assumere un cittadino saudita per ogni 10 lavoratori immigrati.

Una misura volta a ridurre la forza lavoro straniera, (7 milioni e mezzo su una popolazione locale di circa 27), nell’ambito del processo di “saudizzazione” del paese in atto da qualche anno.

Lo scopo è combattere la disoccupazione nel regno, arrivata al 12%, e al contempo la perdita di denaro legata alle rimesse inviate all’estero, stimate in oltre 7 miliardi di dollari l’anno.

Questo giro di vite, però, non è stato senza ripercussioni, soprattutto a livello economico, con la chiusura a tempo indeterminato di più di 250 scuole e di migliaia di negozi in tutto il paese gestiti per lo più da immigrati.

Le stesse aziende locali sono state colpite negativamente dal programma, che ha creato un clima di ostilità anche tra i datori di lavoro privati, che hanno vissuto queste “misure speciali” come un sopruso.

Basti pensare che, oltre alla Nitaqat, è stata introdotta anche l’imposta di 400 ryal per ogni lavoratore straniero assunto sopra il numero dei locali.

Ma il vero danno è un altro: a causa di questi rimpatri di massa, molti imprenditori si ritroveranno senza forza-lavoro qualificata, soprattutto nel settore edile che in questo periodo è in fortissima espansione.

Ma come, non si parlava di disoccupazione?

Troppo qualificati

Le autorità saudite hanno usato i loro vasti proventi del petrolio per offrire un’istruzione completamente gratuita ai propri cittadini, dall’asilo fino all’università, puntando però su materie più teoriche che pratiche (la religione, ad esempio), e con deboli prospettive di lavoro e di opportunità post-laurea.

Diversi gli investimenti anche nelle borse di studio all’estero, affinché i ragazzi apprendessero abilità e competenze da riportare nel regno, per promuovere crescita e sviluppo.

Il risultato, è una moltitudine di giovani super-istruiti ma inadatti a soddisfare le esigenze del mercato del lavoro saudita, che richiede per lo più tecnici.

Con la conseguenza che – come accade in altre parti del mondo relativamente agiate -, i laureati si rifiutano di adeguarsi a certi lavori.

“Non rifiutano solo le posizioni, ma anche gli stipendi offerti, che a loro avviso non sono abbastanza per il loro titolo”, conferma Mufti Mohammad, professore di economia, parlando dei ‘borsisti’.

Dall’altra parte denuncia anche il settore pubblico, sempre più “caratterizzato dalla burocrazia e dalla mancanza di fiducia nelle qualifiche dei laureati”.

E gli studi confermano la tendenza. Secondo un report del Fondo per lo sviluppo delle risorse umane, il 45% dei giovani sauditi si rifiutano di lavorare per aziende private a causa dell’atteggiamento dei loro datori di lavoro, che in genere si aspettano di ricevere da parte dei dipendenti lo stesso livello di impegno assicurato dagli stranieri.

Khalid Al-Seghayer, accademico ed editorialista di al-Arabiya, dà la colpa di nuovo al sistema educativo dello sStato che, pur avendo fornito l’istruzione gratuita, non avrebbe mai insegnato ai giovani l’etica del lavoro.

“I laureati non si comportano in modo professionale, e si assentano spesso per impegni sociali non pianificati – scrive –, senza contare che la loro conoscenza limitata della lingua inglese e le insufficienti competenze informatiche acuiscono il problema”.

Quindi dovrebbe essere il governo a incentivare un diverso tipo di istruzione, creando nuove opportunità di lavoro per i giovani sauditi, invece di ‘usarli’ per sostituire i non sauditi, “considerando che il mercato può ospitarli entrambi”.

Ancora più severa l’opinione dell’analista Abdulateef al-Mulhim: “Oggi la vita è dura e il governo non è in grado di fornire posti per tutti – commenta –, i giovani devono prendere quello che c’è, fare esperienza e allo stesso tempo tendere a migliorare la propria posizione invece che sedersi e aspettare la giusta apertura del mercato “.

In Italia, secondo un termine inglese coniato in modo un po’ indelicato dall’ex ministro del Lavoro Fornero, li si definirebbe ‘choosy’.

“E’ triste – prosegue al-Mulhim – vedere giovani sauditi bighellonare per le strade in auto acquistate dai loro genitori, o seduti in negozi di caffè, senza utilizzare le loro abilità per servire la società. (…) Uno dei tanti luoghi in cui i sauditi disoccupati potrebbero lavorare sono gli stessi negozi di caffè in cui passano la maggior parte del loro tempo”.

Le conseguenze (negative)

Insomma, il lavoro c’è, ma i sauditi non lavorano. Per ora, il governo ha deciso di giocare la carta degli immigrati, e sempre per diminuire la manodopera straniera, vuole ora permettere alle donne di guidare, anche se a determinate condizioni.

Il pensiero di coloro che supportano l’iniziativa, come il principe Alwaleed bin Talal, è che se il denaro non viene inviato all’estero per pagare gli autisti stranieri, rimarrebbero più soldi all’interno del sistema economico del regno, senza contare il risparmio per le famiglie che non sarebbero più costrette a pagare un autista ogni volta che una donna ha bisogno di spostarsi.

Il solito modo con cui il governo cerca di risolvere i propri problemi interni?

Lo si è visto per la questione femminile, o per i diritti negati: di fronte a una popolazione sempre più insofferente ai problemi del lavoro e alle restrizioni sulle libertà civili, la famiglia reale risponde con delle piccole concessioni (come ad esempio il permesso delle donne di andare in bicicletta, o la cittadinanza ai figli delle saudite sposate con stranieri).

Conquiste che sembrano grandi passi avanti in un paese così chiuso e soffocato da restrizioni di ogni tipo, ma che in realtà il regno può ritirare quando vuole, e intanto servono a chetare i tumulti sotterranei che cominciano ad agitarsi anche nel ricco Stato del Golfo.

Anche nel caso degli immigrati, secondo molti analisti gli sforzi sembrano mirati più a dare un segnale alla popolazione che il regime sta prendendo provvedimenti per alleviare i problemi della disoccupazione, piuttosto che un serio tentativo di aiutare i propri cittadini.

E ciò non sarà senza ripercussioni negative a lungo termine. Perché “la riserva di petrolio che abbiamo – avverte ancora al-Mulhim – non durerà per sempre”.

Foto di xsix (via Flickr)

May 14, 2013

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