Marocco. “Il quartiere non è il massimo…”

Boukhalef: nuovo cemento, nuovi abitanti e vecchio razzismo alla periferia di una Tangeri diventata metropoli.

Il quartiere non è il massimo, vie larghe e palazzoni, una strofa sulla poca frequentazione del quartiere da parte dell’élite, per arrivare alla conclusione che, visto che non c’è un cazzo di niente e sei giovane, ti viene voglia di partire.

Canzone manifesto di questa grande famiglia che suona un po’ strana, a certe latitudini.

E’ che il quartiere da cui i Ramblers volevano scappare era, appunto, un quartiere di Modena City: quel “cazzo di niente” anni ’90 è, a distanza di anni e chilometri, talmente bello da sembrare un miraggio. Lo ascoltavi nei racconti dei cugini in Olanda, Germania o magari in Emilia; lo vedi adesso in certi quartieri troppo cari per le tue tasche, un paio di colline più a nord.

Per tanti che sono qua, quel lontano quartiere di Modena sembra una meta.

Perché questo quartiere non è il massimo. Perché questo è Boukhalef.

Un villaggio quieto, poche dozzine di case e un caffè con la pergola, sulla stradaccia sgangherata che portava alla grotta d’Ercole, giusto qualche chilometro fuori da Tangeri. Campi e villette sulle colline solcate dai sentieri. Capre, vacche e pecore. Profumo e colori di Mediterraneo, vento e salata umidità dall’Oceano.

Questo doveva essere Boukhalef, fino all’inizio degli anni 2000. Questo è Boukhalef, oggi, stringendo un po’ l’inquadratura di certi paesaggi.

Dal duemila a oggi, negli immediati dintorni sono sorti un’università, l’aeroporto e una zona franca industriale. Dal duemila a oggi Tangeri è cresciuta, collina dopo collina, cubo di cemento dopo cubo di cemento, e oggi Boukhalef è periferia di una Tangeri diventata metropoli.

Ormai nemmeno più l’estrema periferia – altre villes nouvelles sono già sorte oltre l’aeroporto – ma un sobborgo che promette di rimanere limite estremo fra speculazione edilizia e campagna ancora per un po’, non fosse altro che per la vicinanza con la foresta di Mesnana e le sue poco edificabili rocce. O per non rovinare troppo la vista delle ville dei ricchi, più o meno les pieds dans l’eau secondo il censo.

Boukhalef, i suoi campi e pascoli, il piccolo villaggio di cubi di cemento, è ora una serie infinita di palazzoni di 4 o 5 piani bianchi, di cui è facile distinguere l’anno di costruzione dal progressivo ingrigirsi e scrostarsi delle facciate dipinte a calce.

Alcuni di questi o, per meglio dire, poche mandrie di questi hanno terrazzini per ogni appartamento, un optional che li inquadra nella categoria del moyen standing. Sono quasi tutti vuoti, con le tapparelle che, piano piano, cedono. Se puoi permettertene uno, se hai 25-50.000 euro da investire,Tangeri ha posti migliori in cui farlo e a poco servono i grandi cartelloni pubblicitari di Addoha – il promotore immobiliare – con tanto di faccione sorridente di Khaled, quello di Aicha Aicha écoutes-moi.

La grande maggioranza degli appartamenti, invece, non avrà i terrazzini e un altro promotore immobiliare, Al Omrane, non avrà difficoltà a venderli ad un prezzo imperdibile: 150.000 dh, 13.500 euro. Meno di un 4×4 low-cost della Kia.

A vederla dall’alto, Boukhalef sembra ormai una marea di schiuma bianca che dilaga in una depressione stretta fra la route de Rabat, la striscia d’asfalto diritta della pista d’atterraggio e le colline disposte a semicerchio, a negare la vista dell’Oceano.

Come un liquame tossico, la marea si è allargata anno dopo anno, a partire più o meno dal 2007. Pur con qualche esitazione, la gente ha seguito la scia, attirata chi dal prezzo della casa, chi dalle opportunità di una città in pieno boom economico, chi dalla presenza dell’università di recente apertura.

Una popolazione eterogenea fin dal principio; con gli studenti della classe media marocchina che si mescolavano agli operai delle fabbriche appena aperte. Stipendi e soldi dei genitori da spendere nei caffè e nei negozi, da poco anche in un colorato mercato di ambulanti, riparati nel quartiere dopo essere stati cacciati dai pratini ordinati della route de l’Aeroport, poco lontana, in preparazione di una delle tante visite del re.

All’università, come spesso accade negli atenei marocchini, tanti studenti senegalesi e di altri paesi dell’Africa Centrale e dell’Ovest, per cui il denaro delle famiglie o il voto del baccalaureat non è stato sufficiente ad accedere alle università in Europa o America.

Riproducendo una dinamica comune, gli studenti hanno attirato cugini, amici e compaesani in cerca di fortuna o, magari, di un modo un per passare dall’altra parte di quello stretto così vicino e così lontano.

L’apertura del grande porto di Tanger-Med e la conseguente riduzione del traffico nel vecchio porto, a due passi dalla medina, ha dato un ulteriore impulso al fenomeno, visto che parte delle ragioni della forte presenza di migranti nei vicoletti della città vecchia, oltre al piccolo commercio, era proprio la vicinanza di quelle navi che andavano e venivano dal supposto eldorado europeo.

Ora, la tappa obbligata per provare a passare di là è un’incantevole montagna, la più meridionale delle Colonne d’Ercole, e la sua foresta: il Djebel Moussa. Dove la roccia precipita in mare, ecco la penisola di Ceuta. Di là dal mare, il profilo austero della Rocca di Gibilterra.

Boukhalef è un luogo di passaggio ma anche di arrivo per chi ancora non è andato a rischiare le manganellate e le sevizie della Guardia Civil e delle Forces Auxiliaires sui fitti reticolati della valla, alla frontiera con le enclaves spagnole di Ceuta e Melilla.

O di chi c’è stato, di chi è già stato rispedito a Oujda, oltre il confine desertico con l’Algeria, ed è riuscito a tornare. Oppure di chi s’è stancato di vivere fra mille difficoltà, nella foresta, ed è venuto a vedere se nel quartiere si riesce ad avere un’esistenza migliore.

E in effetti, nel quartiere, si vive meglio, almeno in principio. Un ragazzo o una ragazza senegalesi o camerunesi si trovano più a loro agio che negli altri quartieri a forte densità di migranti di Tangeri, Rabat e Casablanca.

E’ che qui, a differenza di zone come Takadoum a Rabat, anche la larga maggioranza di popolazione che ha origini marocchine – i migranti sub-sahariani non sembrano essere più del 10-15% – è un prodotto di movimenti migratori.

Nessuno o quasi degli abitanti è nato a Boukhalef e anche i tanjaoui sono un gruppetto indistinto in un quartiere che ospita persone di ogni parte del Marocco. Negli ultimi due anni, Boukhalef ha visto crescere vertiginosamente la presenza di un terzo gruppo di migranti, conosciuto da tutti con la sigla MRE, Marocchini Residenti all’Estero. D’estate, il quartiere si riempie di auto con le targhe di mezza Europa mentre gli appartamenti 2 stanze più salone vengono comprati uno dopo l’altro; un po’ per il prezzo ridicolo, un po’ perché una casa a Tangeri serve sempre, un po’ perché “tanto poi lo affittiamo”.

Quale che sia la ragione, in estate Boukhalef fiorisce di lingue, mode e acconciature di mezza Europa mentre le famiglie marocchine emigrate a Barcellona o Liegi, Marsiglia o Bergamo, Dusseldorf o Rotterdam, si godono l’istituzione sacra delle grandes vacances.

Con la crisi in Europa, con le fabbriche che chiudevano e i cantieri che venivano interrotti, decine di MRE, soprattutto gli spagnoli e gli italiani, hanno pensato che, forse, a Tangeri si riusciva a tirare avanti meglio che de el otro lado.

Migranti da sud, da est e anche da nord mescolati in una comunità che, proprio per questo, fatica a identificarsi nella contrapposizione fra “autoctoni” e “invasori”.

E così capita che gli affari della boutique di generi vari dell’MRE di ritorno prosperino grazie agli acquisti, un dirham alla volta, di ragazzi di Dakar o di Conakry. Pochi spiccioli da qualcuno guadagnati mendicando, dalla grande maggioranza lavorando a giornata o sopravvivendo con la saltuaria Western Union proveniente dalla famiglia.

Diallo ad esempio fa il manovale per Aziz, un muratore di Agadir che ha iniziato una piccola attività, prosperando grazie ai restauri di cui ogni appartamento nuovo, magari comprato da un MRE di Bologna, ha bisogno qui a Boukhalef. Poi forse Diallo, dopo aver litigato con Aziz sul compenso, andrà a passare la serata a parlare su Skype con la famiglia nella teleboutique di un marocchino belga, lasciata in gestione al cugino appena arrivato dal bled, sperduto in qualche valle dell’Alto Atlante.

Queste relazioni di prossimità mantengono al minimo la tensione fra gruppi che, a parte rare eccezioni come il calcio, vivono sullo stesso territorio senza mescolarsi. A Boukhalef, quella frontiera più mentale che geografica che è il Sahara non si valica con le chiacchiere e nemmeno con i saluti ma, nonostante ciò, nessuno si arrabbia per un contatore dell’acqua manomesso per riempire bottiglioni da cinque litri. O se un appartamento vuoto viene occupato.

Boukhalef è stato, per qualche mese, un laboratorio imperfetto e caotico di una società multiculturale à la marocaine.

Meno solidarietà di quanto sperassero le ONG, pochi sorrisi per le loro brochure. Ma anche comprensione per le difficoltà di chi arriva da lontano, sotto forma di indifferenza verso quei piccoli crimini senza vittime commessi per sopravvivere, e adattamento del proprio modus vivendi al carattere ibrido della gente del quartiere.

Poi però dall’anno scorso sono cominciate le retate delle Forces Auxiliaires – in tre di queste c’è scappato il morto – le manifestazioni e le contromanifestazioni. Fino alle aggressioni e al vandalismo delle ultime settimane. [continua…]

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September 10, 2014di: Elmar Loreti (testo) e Francesco La Pia (foto)Marocco,Articoli Correlati:

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