Le donne libanesi in marcia contro la violenza

Manal, Fatima, Roula, Malika, Bouthayna. E ancora, Mona, Sonia, Amina, Latifa. I loro nomi sono stati invocati più volte a Beirut, l’8 marzo 2014. Si tratta di alcune fra le ultime vittime di violenza domestica in Libano, un problema dolorosamente vivo nel cuore e nella coscienza della società civile del Paese, sebbene spesso oscurato dalle trite storie sulle donne belle e disinibite delle classe agiate beirutine o dalla considerazione che, in rapporto ad altre zone del Mediterraneo, le libanesi se la passano tutto sommato abbastanza bene.

Non è questa la posizione di Kafa (“Basta”), un’organizzazione contro la violenza e lo sfruttamento della donna attiva dal 2005, apartitica e non confessionale.

Che, proprio in occasione della Giornata Mondiale della Donna, ha organizzato una marcia contro la violenza domestica e per l’approvazione di una legge in materia. L’iniziativa ha riscosso grande successo, dimostrando quanto importante e urgente la questione sia per la sensibilità di una parte della società libanese.

Tra le quattromila e le cinquemila persone si sono radunate presso il Museo Nazionale di Beirut – là dove durante la guerra civile la linea di demarcazione separava una città in lotta – per poi sfilare fino al Palazzo di Giustizia.

Tante ragazze determinate, ma anche tante adulte, spesso con figli e figlie al seguito. Tanti stili differenti, a indicare una partecipazione che è andata oltre i confini confessionali del Libano (più difficile esprimersi sulla composizione per classi sociali).

Tantissime donne, ma tanti anche gli uomini presenti: giovani che accompagnavano le fidanzate, attivisti e intellettuali, semplici cittadini.

Una partecipazione assai vivace, molti striscioni e cartelli erano infatti portati dagli uomini, a sottolineare come la violenza sulle donne si combatta in primo luogo lavorando sui comportamenti e sulla sensibilità maschili. Grande entusiasmo ha riscosso la presenza di una comunità di donne curde, fiere nei loro abiti tradizionali a invocare giustizia per le loro vittime.

La marcia è stata inoltre una grande manifestazione di creatività.

Durante il raduno due attori hanno messo in scena la storia di una giovane libanese che dopo il matrimonio diventa vittima di un marito violento che la picchia, la tortura, la violenta. La ragazza subisce, giorno dopo giorno, senza sapere a chi rivolgersi. Un giorno, disperata, chiede aiuto al padre, il quale per tutta risposta la picchia e le intima di tornare dal marito perché il suo dovere è quello di “obbedire al proprio sposo”.

La protagonista della storia viene infine uccisa dal coniuge. Proprio come Manal, Fatima, Roula, Malika, Bouthayna, Monia, Sonia, Amina, Latifa, vittime di uomini violenti e di un sistema complice.

Innumerevoli gli slogan di rabbia e indignazione. In arabo, francese, inglese. “What shocks you more?” chiede una donna nuda dal viso segnato dalle percosse. È la campagna di MARCH – un’altra organizzazione che si occupa di violenza contro le donne, presente alla manifestazione – indetta in occasione dello scandalo scatenato dalla sciatrice Jackie Chamoun, colpevole per le autorità libanesi di avere posato nuda per un calendario, compromettendo il buon nome del suo paese.

Anche in questo caso la società civile si era mobilitata, prevalentemente sui social network, contro un sistema ipocrita che censura e punisce la nudità, ma non tutela in alcun modo le donne.

Il corteo più volte si è rivolto a medici e giudici, troppo compiacenti e indulgenti verso i colleghi maschi. Referti falsati, in cui percosse e ferite diventano il risultato di una semplice brutta caduta.

Pene tutto sommato lievi, anche quando si tratta di omicidio. Come nel caso di Roula: suo marito l’ha uccisa a bastonate lo scorso luglio, scontando solo sei mesi di carcere. Una condanna che ha suscitato le ire della madre della ragazza e di tante altre persone.

Il punto centrale nell’agenda della manifestazione – oltre a protestare a gran voce contro la cultura patriarcale e il sistema che ne consegue – era la richiesta di approvazione di un disegno di legge che finalmente tuteli le donne dalla violenza domestica, comminando pene adeguate e creando appositi strumenti istituzionali che permettano alle donne di chiedere e ottenere aiuto, assistenza legale e giustizia.

La proposta è stata depositata in Parlamento nel 2010 e gli emendamenti sono stati approvati solo nel luglio 2013, suscitando diverse proteste.

In primo luogo si parla ora di “violenza contro i familiari”, anziché di donne nello specifico; inoltre, un comma sullo stupro da parte del marito è stato rimosso (la sanzione scatta solo nel caso di “danni” per la donna) perché percepito come pericoloso per la “stabilità della famiglia” da alcuni politici e autorità religiose.

Infine sono state introdotte alcune restrizioni sull’affidamento e la protezione dei figli minorenni, il che potrebbe scoraggiare molte donne dal denunciare i propri mariti. La legge giace ora in parlamento in attesa di approvazione, bloccata dall’impasse politica dell’ultimo anno. Ora che il nuovo governo è stato nominato lo scorso 15 febbraio, si spera che finalmente si possa procedere con le votazioni.

Al-shaab yurid iqrar al qanun, “il popolo vuole l’approvazione della legge” si cantava senza sosta di fronte al Palazzo di Giustizia.

Al di là dei problemi di forma e sostanza che il progetto presenta, il Libano ha espresso il bisogno di cominciare a dare dei segnali alle sue donne perché possano liberarsi dal giogo della violenza di un sistema patriarcale di cui mariti e familiari maschi sono spesso i primi depositari.

Perché senza le opportune tutele moltissime altre potrebbe subire la medesima sorte di Manal, Fatima, Roula, Malika, Bouthayna, Monia, Sonia, Amina, Latifa.

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March 12, 2014di: Clara Capelli (da Beirut)Libano,

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