Algeria. Identità mortali

Dal dicembre del 2013 a Ghardaïa, la maggiore città della valle del Mzab, si sono moltiplicati gli scontri sanguinosi tra la popolazione locale a maggioranza berbera e le comunità arabofone. Viaggio nella “valle della paura”.

E’ passata la mezzanotte nel labirinto di strade buie e strette del quartiere di Bab Ouel Djema, a Ghardaïa. Bakir e Bachir, due giovani mozabiti (1), hanno montato il turno di guardia alla 10 di sera.

Questa millenaria tradizione di assicurare la guardia alla città vecchia è stata rafforzata dopo i primi scontri del dicembre 2013. In tutti i quartieri, gli uomini di una certa età vegliano davanti ad un braciere sorseggiando del tè.

Con i volti coperti, i più giovani pattugliano in piccoli gruppi, a piedi o in moto. Muniti di fischietti, si tengono pronti a lanciare l’allarme in caso di attacco dal campo avverso. Nel giro di pochi minuti l’intera città può ritrovarsi sul piede di guerra.

Ormai da secoli i berberi mozabiti e gli arabi chaamba (2) convivono in questa valle alle porte del deserto, 600 chilometri a sud di Algeri. Mai gli scontri tra le due comunità avevano raggiunto una gravità e una vastità tali.

Quattro morti da parte mozabita a dicembre, tre da quella araba a metà marzo, centinaia di feriti, case e negozi distrutti e incendiati, cimiteri saccheggiati, mausolei millenari distrutti, santuari profanati. La paura e la diffidenza si sono impossessate dei due campi.

“Siamo diventati una minoranza a casa nostra”

Questo martedì, i cittadini si sono recati a lavoro in un clima di tensione. Furgoni della polizia in assetto antisommossa si sono posizionati ad ogni incrocio, su tutte le piazze pubbliche. Addossati ai muri, piccoli gruppi di agenti delle forze dell’ordine restano in attesa del prossimo incidente.

Tutta Ghardaïa resta circondata da migliaia di poliziotti e gendarmi, mentre è deserto il vecchio mercato, abbandonato da bancarelle e commercianti.

All’inizio di un vicolo ingombro di banchi carichi di frutta e legumi, la sede della Lega Algerina dei Diritti umani è diventata oggi quella di una fondazione per la difesa della cultura mozabita. Segno dei tempi. Ed è anche il quartier generale di Kameledine Fekhar, l’attivista più conosciuto della valle del Mzab.

Per questo militante dai tanti volti, quello che sta succedendo non è che uno “scontro di civiltà”, tra la mentalità beduina dei chaamba e quella cittadina, rivendicata dai mozabiti.

Fekhar, che ha già conosciuto più volte il carcere, non usa mezzi termini: “Dopo l’indipendenza, il territorio è stato controllato al 90% dai mozabiti. Oggi ci ritroviamo accerchiati da nuovi quartieri arabi. Siamo diventati una minoranza a casa nostra. Per loro, siamo dei kharigiti (3) cui è lecito privare di vita e beni”, afferma. Secondo lui c’è stata molta più violenza nel 1985, ma quello che è diverso, questa volta, è l’utilizzo dei social network e dei nuovi media da parte dei mozabiti per far conoscere la tragedia che stanno vivendo.

In effetti a gennaio, la diffusione di video e foto che mostravano l’atteggiamento della polizia a favore dello schieramento arabo ha fatto molto discutere, e obbligato le forze di sicurezza ad aprire alcune inchieste dopo aver negato l’accaduto in un primo tempo. Postato su You Tube, il video che mostrava l’uccisione di un giovane mozabita, Azzedine Baba Ousmail, per mano di una folla isterica, ha particolarmente colpito la popolazione.

Secondo Fekhar, questo evento ha provocato una presa di coscienza in seno alla società mozabita. “Una nuova generazione di mozabiti, meno docili e più ribelli, ha visto la luce. Si sono affrancati dalla doppia tutela degli anziani e dello Stato”, sostiene, aggiungendo che sempre più giovani oggi condividono le sue opinioni, quando solo pochi mesi fa passava per un radicale poco frequentabile.

Ex direttore all’urbanistica di Ghardaïa, Mohamed Deham, un notabile chaamba, respinge con forza invece la tesi del conflitto fra comunità. “Non abbiamo problemi con i mozabiti”, insiste. “Il conflitto vede contrapposti ibaditi e maliti, non mozabiti e chaamba”.

A suo parere questo conflitto tra il rito ibadita e quello malikita avrebbe origini puramente materiali. “E’ semplicemente un problema sociale”, afferma.

I mutamenti sociali intervenuti all’indomani dell’indipendenza avrebbero insomma esacerbato le antiche rivalità tra allevatori o contadini arabi, e commercianti mozabiti.

“Il primo scontro tra le due comunità ebbe luogo nel 1975, quando abbiamo occupato la totalità delle terre di Ghardaïa”, precisa Deham, che pensa che la soluzione consista nel creare nuove suddivisioni di terre lontano dalla città e dalla sua valle sovrappopolata.“Il Sahara è grande”, sintetizza. Quanto al conflitto tra le due comunità, si tratta per lui di una questione di buon senso: “Dobbiamo semplicemente imparare a vivere insieme”.

“Lo Stato è intervenuto solo due mesi dopo l’inizio degli scontri”

Il 6 febbraio, il ministro dell’Interno Tayeb Belaïz è arrivato in città insieme al comandante della Gendarmeria nazionale, il generale Ahmed Bousteila, e al direttore della Sicurezza nazionale (Dgsn) Abdelghani Hamel. Hanno annunciato la messa in funzione di un centro per le operazioni di sicurezza co-gestito dalla Gendarmeria e dalla Sicurezza nazionale al fine di “ristabilire l’ordine, mettere fine agli scontri” e affermare “la determinazione dello Stato ad applicare le leggi della Repubblica con rigore contro chiunque metta a rischio la sicurezza degli individui e dei beni”.

All’inizio di marzo, in seguito a un’inchiesta, tre poliziotti ripresi mentre picchiavano dei manifestanti sono stati licenziati. Ma per Khoudir Babez, mozabita e membro del Comitato di coordinamento e monitoraggio (CCS) creato dopo lo scoppio delle violenze per assicurare il dialogo e la concertazione con le autorità, lo Stato ha fallito nella sua missione di protezione.

“All’origine delle ostilità c’è una banda di criminali protetti da qualche ufficiale di polizia. Noi mozabiti siamo sempre stati in posizione difensiva”, afferma con rammarico, prima di denunciare la negligenza delle autorità, senza la quale non si sarebbe arrivati a tanto.

“Lo Stato è intervenuto solo 60 giorni dopo l’inizio degli scontri, dopo che c’erano già state quattro vittime, tutte mozabite. E’ la ragione per cui la situazione è degenerata in guerra aperta”, sostiene, con ancora più amarezza perché si è cercato di cancellare l’identità mozabita attraverso i simboli. “I teppisti non hanno colpito macchine nuove, che valgono milioni. Al contrario, hanno attaccato i cimiteri…”.

La principale richiesta del CCS? Che lo Stato ristabilisca rapidamente la sicurezza e “punisca i criminali debitamente identificati”. Quanto al dialogo, oggi interrotto, tra le due comunità, potrebbe riprendere ma solo a certe condizioni. “Ci aspettiamo due cose da parte della comunità araba”, conclude Babez. “Che i loro imam vietino gli omicidi e il furto dei beni e che ci chiedano scusa”.

La comunità Chaamba avrebbe subito i torti peggiori

Secondo Bouamer Bouhafs, ingegnere in pensione e presidente della Fondazione dei Chaamba, non è mai stata una questione di scuse. “I nostri giovani non hanno fatto che rispondere agli attacchi delle milizie paramilitari mozabite”, afferma, riconoscendo che, malgrado una storia segnata da episodi di scontro, le cose non si erano mai spinte così oltre. “C’erano state piccole frizioni, ma mai una frattura come questa”.

Secondo lui è la comunità chaamba ad aver subito i torti peggiori, al punto che centinaia di famiglie si ritrovano oggi senza niente. “I mozabiti hanno oltrepassato la linea rossa. Ci hanno distrutti. Non li perdoneremo mai”, assicura. Perché aver saccheggiato le tombe? “Si sono nascosti dietro la chiusura dei cimiteri per attaccare il quartiere arabo di Hadj Messaoud”, insiste. E i morti mozabiti di dicembre? Protesta: “Ah no, erano algerini, tutti noi li abbiamo perduti”. La soluzione? “Bisogna accelerare la creazione di consigli comuni che regolino la gestione degli affari cittadini”.

Bouhafs chiede anche l’applicazione del principio di uguaglianza tra i cittadini. Anche se rifiuta di spiegare i motivi di questa richiesta, non fa che esprimere il sentimento di esasperazione di alcuni chaamba di fronte a quelli che considerano privilegi accordati alla popolazione mozabita: strutture tradizionali, scuole private, cimiteri e moschee per la comunità.

Intanto, la distanza tra le due comunità è divenuta abissale, tanto che non dialogano se non per intermediari. Alla minima scintilla, al minimo incidente isolato, la situazione precipita e Ghardaïa va in fiamme.

Come quella sera del 12 marzo, quando un gruppo ha attaccato un negozio nel centro della città. Le violenze sono proseguite per i tre giorni successivi, provocando tre morti e centinaia di feriti. Oltrepassando i confini cittadini, hanno toccato anche il vicino borgo di Beni Isguen, ed hanno minacciato Metlili, 40 chilometri a sud.

Quando si è recato a Ghardaïa il 16 marzo, accompagnato da Belaïz e dal generale Bousteila, Youcef Yousfi, il primo ministro ad interim, ha fatto appello alla popolazione a superare le divisioni per “guardare al presente, e rivolgersi al futuro”. Ma ha potuto incontrare i rappresentanti delle due comunità solo separatamente.

A Ghardaïa le tregue, sempre più brevi, non sembrano ormai più reggere se non con la massiccia presenza di forze di polizia. E ovunque, nella valle, l’inquietudine è palpabile.

1) Gruppo etnico berbero che abita la regione di Mzab, nella provincia di Ghardaia, nel nord del Sahara algerino. La maggior parte è di religione musulmana ibadita.

2) Tribù araba dei Banu Sulaym che vive nel Sahara algerino.

3) Gli ibaditi rappresentano l’unico ramo oggi esistente dei kharigiti, corrente religiosa dell’Islam che si pone come ‘terza via’ tra sunnismo e sciismo. I malikiti seguono invece i precetti della scuola giuridico-islamica malikita, che predica la stretta osservanza dei precetti religiosi, e sono il gruppo prevalente in Nord Africa.

*La traduzione è a cura di Cecilia Dalla Negra. Per la versione originale dell’articolo clicca qui.

April 11, 2014di: Arezki Said per Jeune Afrique*Algeria,Articoli Correlati:

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