Medio Oriente on the road: conversazioni musicali e di rivolta

Vivono spesso tra censura, dispotismo e abusi di potere, ma non perdono la voglia di ribellarsi, di esprimersi nonostante tutto, di cambiare le cose.

Sono gli artisti arabi secondo il musicista Arash Sobhani, leader e fondatore della band iraniana Kiosk, che l’anno scorso ha deciso di toccare con mano questi punti in comune e queste differenze e si è messo in viaggio alla ricerca di scambi musicali e opinioni con i suoi colleghi sparsi per il Medio Oriente.

Il risultato è “Music of resistance, conversations in the Middle East”: un interessante documentario di 25 minuti prodotto dalla Freedom Beat Recordings e dall’Usip (United States Institute of Peace).

Diviso tra Turchia, Egitto e Libano, ci mostra alcuni tra gli artisti più significativi di queste aree che, tra una jam session e l’altra, riflettono insieme a Sobhani sul senso della musica come impegno sociale e civile, sul contesto politico della regione, sugli scontri e le rivolte che hanno agitato i loro paesi negli ultimi anni e sul senso dell’arte come forma efficace di protesta nonviolenta e liberatoria.

Si parte così da Istanbul, dove il musicista iraniano incontra i Kardes Türküler (“Canzoni di fratellanza”), band etno-folk di lunga data che ha partecipato attivamente alle rivolte di Gezi e alle proteste contro il leader turco Erdogan.

La loro canzone Tencere Tava Havasi, (“Il suono di pentole e padelle”) è diventata un inno contro la censura, i decreti e i divieti imposti dall’alto. “Il presidente – raccontano – aveva visto la gente arrabbiata per le strade e aveva detto: sono solo suonatori di pentole e padelle. In pratica li aveva umiliati”.

Loro l’hanno preso alla lettera, scandendo al ritmo metallico e festoso di stoviglie e pentolame i loro versi di protesta, in quei giorni memorabili che il documentario non manca di mostrare.

La seconda tappa è Beirut, con l’intervista al musicista e produttore Raed el Khazen e la sua difesa appassionata della musica che “non può limitarsi a essere puro intrattenimento”.

Lui si spende parecchio sulla promozione di giovani artisti locali, ma nota spesso una sorta di superficialità, una mancanza di comprensione del contesto. E li paragona agli artisti afroamericani, che ha studiato e amato moltissimo: “Anche loro hanno contribuito a mettere Barack Obama là dov’è – afferma – e se le persone non capiscono la connessione tra Miles Davis e Obama, hanno un grosso problema. L’artista ti deve svegliare, ti deve rendere consapevole”.

Sobhani si sposta infine al Cairo, dove incontra prima il gruppo hip hop degli Asfalt – che dopo i repentini sconvolgimenti in Egitto negli ultimi 3 anni hanno deciso di “scegliere di non scegliere da che parte stare” – e poi la cantante e musicista Youssra el Hawari – che racconta la sua idea di musica “capace di unire Oriente e Occidente”, e il suo modo personale e femminile di rivolgersi alla sua generazione.

“Quando scrivo o canto non penso a cosa devo dire agli altri, alla gente dell’altra riva – racconta – Dico semplicemente quello che sento, come io vedo il problema, cos’è che mi fa soffrire, ed è questo che riunisce tutti: qui a est vi si riconoscono, perché abbiamo gli stessi problemi ed esperienze; mentre alla gente dell’ovest viene voglia di conoscerci meglio”.

Naturalmente un documentario musicale non poteva essere tale senza la musica e non mancano le session in sala prove tra Sobhani e gli artisti intervistati, in un mix divertente e curioso, di cui si possono vedere le versioni complete nel canale Youtube di Beat Freedom.

Ed è proprio questo scambio tra artisti di diversi paesi, ma in qualche modo accomunati dalla voglia di essere protagonisti del proprio tempo, a rendere speciale questo film.

Arash Sobhani in primis ha vissuto la repressione nel suo paese natale, l’Iran, dove le durissime leggi e la censura hanno per lungo tempo costretto lui e la sua band a suonare in segreto o a cimentarsi in trafile estenuanti per ottenere le varie autorizzazioni e i permessi.

E dato che i testi dei Kiosk sono sempre stati molto “politici” e senza peli sulla lingua, alla fine sono dovuti emigrare tutti tra Stati Uniti e Canada, dove hanno potuto finalmente fare uscire i loro album e promuovere il proprio lavoro.

“E’ stata una grande esperienza – afferma Sobhani riferendosi al documentario – In tutti questi paesi la gente affronta gli stessi problemi, i musicisti vogliono esprimersi e il governo li blocca ed è così da cento anni. Ma ora, ognuno certa di trovare la propria soluzione”.

June 29, 2014di: Anna ToroEgitto,Iran,Libano,Turchia,Video:

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