Armi. I droni e la legittimità della guerra

Il diritto a perseguire una preda ovunque essa sia ha cambiato il modo di intendere le relazioni internazionali. I droni hanno reso persino superflua la legittimazione popolare all’atto di dichiarare guerra. Neve Gordon recensisce il libro “Teoria del drone. Principi filosofici del diritto di uccidere” di Grégoire Chamayou.

Questo natale i droni di piccole dimensioni sono stati, negli Stati Uniti, tra i regali più popolari sotto l’albero: secondo i produttori durante le vacanze sono stati venduti 200mila nuovi veicoli aerei a pilotaggio remoto.

Laddove la rapida infiltrazione dei droni nell’ambito ludico riflette chiaramente il fatto che essi siano diventati un’arma comune tra le forze armate, la loro presenza sugli scaffali di Wallmart serve a normalizzare il loro dispiegamento in ambito militare.

I droni, come sostiene Gregoire Chamayou nel suo libro “Teoria del drone. Principi filosofici del diritto di uccidere” (Derive Approdi, 2014), hanno un potere straordinariamente seduttivo, che riesce ad attirare allo stesso modo militari, politici e cittadini comuni.

Chamayou, ricercatore presso il Centre National de la Recherche Scientifique di Parigi, è uno dei più profondi pensatori contemporanei che si occupano dell’uso della violenza.

Il suo nuovo libro offre una concisa storia dei droni, ma soprattutto analizza il modo in cui essi stanno cambiando i conflitti, a partire dalla loro capacità di alterare l’arena politica dei Paesi che ne fanno uso.

Arma umanitaria

Chamayou sottolinea come i droni stiano cambiando la nostra concezione della guerra principalmente in tre modi.

In primo luogo, perde di consistenza l’idea di una frontiera o di un campo di battaglia, come anche l’idea che vi siano particolari luoghi – come le abitazioni civili – dove l’uso della violenza è considerato reato.

In altre parole se un tempo la legalità dell’uccisione dipendeva dal luogo in cui tale violenza veniva perpetrata, oggi gli avvocati americani sostengono che la tradizionale connessione tra lo spazio geografico – come il campo di battaglia, l’abitazione o una moschea – e le forme di violenza è ormai datata. Di conseguenza ogni luogo diventa un potenziale sito della violenza dei droni.

In secondo luogo, i droni sono considerati delle armi precise. Quello di “precisione”, tuttavia, è un concetto scivoloso.

Per qualcuno la decapitazione con un machete è molto più precisa e tuttavia in Occidente non c’è alcun sostegno politico o militare per uno strumento di precisione di questo tipo.

Certamente il concetto di “precisione” si rivela essere una categoria estremamente vasta. Gli Stati Uniti, per esempio, considerano come “combattenti” tutti gli uomini in età militare che si trovano in una zona colpita, a meno che non vi sia un intervento esplicito dell’intelligence militare a provare post-mortem la loro innocenza.

La logica del drone consiste nel collegare la precisione alla geografia.

In quanto armi precise, i droni rendono irrilevanti i contorni geografici dal momento che la loro presunta precisione giustifica l’uccisione di sospetti terroristi nelle loro case.

Qualsiasi zona possa essere colpita da un drone viene equiparata a una zona d’attacco legittima e legale.

E quando l’uccisione legale può avvenire ovunque, allora si possono giustiziare sospetti in ogni luogo – anche in quelle zone tradizionalmente ritenute off-limits.

Infine, i droni cambiano la nostra concezione della guerra, perché diventa impossibile a priori, seguendo le parole di Chamayou, essere esposti alla morte nell’atto stesso di uccidere.

Un ufficiale d’aviazione ha descritto questo vantaggio basilare così: “Il vero vantaggio dei sistemi aerei a pilotaggio remoto è che essi permettono di preservare e proteggere il potere senza rendersi vulnerabili”.

Di conseguenza i droni vengono definiti “armi umanitarie” in due sensi: essi sono precisi rispetto al nemico e non hanno alcun costo in termini di vite umane per l’esecutore.

Dalla conquista alla caccia

Se Guantanamo è stata l’icona della politica contro il terrore di George. W. Bush, il drone è diventato l’emblema della presidenza Obama.

Chamayou sostiene che Barack Obama ha adottato una dottrina contro il terrore completamente diversa da quella del suo predecessore: ammazzare piuttosto che catturare, sostituendo la tortura con assassinii mirati.

La dottrina di Obama prevede un cambiamento nel paradigma della guerra.

In contrasto con il teorico militare Carl Von Clausewitz, il quale sosteneva che la struttura fondamentale della guerra è quella di un combattimento a due in cui ci si confronta faccia a faccia, noi abbiamo ora, secondo il linguaggio di Chamayou, un cacciatore che si avventa sulla sua preda.

Chamayou, che è autore anche del testo “Manhunts: A Philosophical History”, riferisce che secondo il diritto pubblico inglese in passato si potevano cacciare tassi e volpi nella proprietà terriera di qualcun altro “perché distruggere tali creature è considerato redditizio per il bene pubblico”.

Questa è esattamente il tipo di legge – egli sostiene – a cui gli Stati Uniti vorrebbero appellarsi per i droni.

La strategia della caccia all’uomo militarizzata è essenzialmente preventiva. Non si tratta di rispondere a un attacco effettivo, quanto piuttosto di prevenire, attraverso l’eliminazione precoce di potenziali avversari, la possibilità che emergano nuove minacce.

Secondo questa nuova logica, la guerra non si basa più sulla conquista. Obama non è interessato a colonizzare il Pakistan del nord, bensì al diritto di dare la caccia al nemico.

Il diritto a inseguire la preda ovunque essa si trovi, di contro, trasforma il modo di intendere i principi basilari delle relazioni internazionali, dal momento che esso indebolisce la nozione di integrità territoriale e la definizione largamente condivisa di sovranità, come anche quella di autorità suprema su un determinato territorio.

La trasformazione del paradigma bellico di Clausewitz si manifesta anche in altri modi. Le guerre dei droni sono guerre senza perdite o sconfitti, ma sono anche guerre senza vincitori e vittorie.

La combinazione di questi due elementi prepara il terreno per uno stato di violenza perpetua, la fantasia utopica di coloro i quali traggono profitti dalla produzione di droni e di armi simili.

La politica negli Stati-droni

Inoltre, i droni cambiano la politica degli “Stati droni”. Poiché essi trasformano la guerra in un telecomandato atto spettrale orchestrato in una base in Nevada o in Missouri, in cui i soldati non rischiano più la loro vita, anche l’attitudine critica della cittadinanza rispetto alla guerra si è trasformata radicalmente, alterando, in un certo senso, l’arena politica nell’ambito degli Stati-droni.

I droni, sostiene Chamayou, rappresentano una soluzione tecnologica all’incapacità dei politici di mobilitare supporto per la guerra.

In futuro i politici potrebbero non aver più bisogno di coinvolgere i cittadini perché nel momento in cui le forze armate cominceranno a utilizzare solo droni e robot non ci sarà più bisogno che l’opinione pubblica finanche sappia che sia stata dichiarata una guerra.

Quindi mentre, da un lato i droni contribuiscono a produrre legittimazione sociale della guerra riducendo i rischi, dall’altro essi rendono la sua legittimità sociale irrilevante rispetto al processo decisionale politico relativo alla guerra.

Ciò riduce drasticamente la soglia oltre la quale far ricorso alla violenza, a tal punto che essa appare sempre più come un’opzione prestabilita per le questioni di politica estera. La trasformazione delle guerre in imprese senza rischio le renderà ancor più onnipresenti di quanto non lo siano adesso.

Anche questa è una delle eredità di Barack Obama.

*Questo articolo è stato originariamente pubblicato su “Il Lavoro Culturale“, che ringraziamo per la gentile concessione. Neve Gordon è l’autore di “L’occupazione israeliana” (in uscita in Italia con Diabasis) e “The Human Right to Dominate” (insieme a Nicola Perugini, in uscita a giugno 2015 per Oxford University Press). La traduzione in italiano è a cura di Angela Maiello.

February 08, 2015di: Neve Gordon per Il Lavoro Culturale*

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